Artamano
2007-08-19 20:44:45 UTC
Le banalità di Deaglio
LE BANALITÀ DI DEAGLIO
Se si vuole capire subito quale sia il grado di attendibilità del
libro di Enrico Deaglio intitolato La banalità del bene. Storia di Giorgio
Perlasca, (Feltrinelli, Milano 2002), bisogna cominciare con l'esaminarne la
parte intitolata "Notizie sparse dal dopoguerra".
Si tratta di un'appendice alquanto raccogliticcia, nella quale
è contenuta la bibliografia che Deaglio vuol far credere di aver consultata.
Il primo riferimento bibliografico consiste in quel "bel ritratto della vita
a Budapest in un quartiere ebraico durante la guerra" che è costituito dai
libri di Giorgio e Nicola Pressburger. (Per chi non lo sapesse, i gemelli
Pressburger arrivarono in Italia nel 1956. Nicola, ora defunto, fece
ovviamente una rapida carriera nel giornalismo, mentre Giorgio dirige oggi
l'Istituto Italiano di Cultura nella capitale ungherese ed è celebre per
avere stabilito che "la cultura italiana è Benigni, non Ariosto"). Tra i
libri dei Pressburger citati da Deaglio è degno di menzione quello in cui
viene ricordato con accenti commossi l'Inno alla merda (sic), composto da
uno dei due gemelli per rendere omaggio "con parole solenni alla materia che
domina il mondo, provoca le gioie più lievi e il dolore più
profondo"(L'elefante verde, Marietti, Genova 1988, p. 73).
Passando dalla coprolalia alla storiografia, tra i "pochi libri di
storia che trattano dell'Ungheria durante la seconda guerra mondiale"Deaglio
cita I falsi fascismi di Mariano Ambri, L'epoca delle rivoluzioni nazionali
di Michele Rallo e Roma-Berlino-Salò di Filippo Anfuso. Di Ferenc Szálasi
viene citato soltanto il Discorso agli intellettuali (in un "Quaderno del
Veltro" del 1977), ma vengono ignorati i discorsi contenuti in Kitartás!
(Ed. di Ar, 1974) e anche il più recente Diario dal carcere
(All'insegna del Veltro, 1997).
Più che ovvia la poca familiarità dello "storico" Deaglio con la
pubblicistica crocefrecciata; ma neanche con la saggistica
liberaldemocratica egli sembra trovarsi a suo agio. Di István Bibó,
infatti, viene citata l'edizione francese (L'Harmattan 1986) del saggio
sulla Miseria dei piccoli Stati dell'Europa occidentale. È comprensibile che
non venga citata l'edizione italiana (Il Mulino 1994), che tra l'altro è
stata finanziata da un ente filantropico non ignoto a Deaglio, ossia la
Fondazione Soros; ciò è dovuto al fatto che la prima edizione della Banalità
di Deaglio risale al 1991 e le edizioni successive (fino all'undicesima del
2002) non sono più state aggiornate. Ma è evidente che Deaglio non ha letto
neanche l'edizione francese da lui citata, perché egli scrive,
testualmente,che il libro di István Bibó contiene una "riflessione sugli
avvenimenti ungheresi, con particolare riguardo all'antisemitismo". Di un
particolare riguardo all'antisemitismo, invece, nel saggio di Bibó non c'è
neanche l'ombra, nemmeno in quei capitoli (il secondo e il quarto) che
meglio si sarebbero prestati a trattare di tale argomento.
A riferimenti bibliografici così abborracciati, sommari e
disinvolti, corrisponde d'altra parte, nella Banalità del bene, una
rievocazione dei fatti storici che, per usare un eufemismo, definiremo
"giornalistica" e degna in particolare del "Diario" diretto da
Deaglio.Citiamo soltanto alcuni punti, a titolo di esempio.
A p. 35 Deaglio dice che gli ebrei venivano "accusati" dagli
Ungheresi di avere aderito alla Repubblica dei Consigli presieduta
dall'"ebreo Béla Kun". Di fronte alla parola "accusati", il lettore è
indotto a pensare che tale "accusa" non fosse necessariamente fondata, ma
procedesse da un preconcetto atteggiamento antisemita. Infatti Deaglio
evita accuratamente di dire che gli ebrei d'Ungheria avevano effettivamente
e massicciamente appoggiato la Repubblica dei Consigli, i dirigenti della
quale, d'altronde, erano quasi tutti ebrei.
Sempre a p. 35 si afferma che, dopo la prima guerra mondiale, tra i
territori ungheresi ceduti al nuovo Stato jugoslavo vi fu anche la Slovenia.
Uno studente di liceo dovrebbe sapere che nell'Impero austro-ungarico la
Slovenia era governata da Vienna, non da Budapest; Deaglio invece lo ignora.
Ancora a p. 35, l'Ungheria degli anni Venti e Trenta è un paese
"profondamente cattolico". Forse il "profondamente" è di troppo. E non solo
perché lo Stato ammetteva il divorzio; non solo perché, oltre ai cattolici
c'erano ebrei e luterani, rappresentati gli uni e gli altri alla Camera
Alta; ma anche perché in Ungheria era (ed è) molto consistente la comunità
calvinista, tant'è vero che la terza città del Paese, Debrecen, è nota come
"la Roma calvinista".
A p. 39, Deaglio dice che László József Bíró era a
Budapest,tra le due guerre, quando inventò la penna a sfera. A questo
proposito,sarebbe stato interessante precisare che Bíró ottenne il brevetto
della sua invenzione nel 1938; che iniziò a produrla in proprio negli anni
della seconda guerra mondiale, quando ormai si trovava in Argentina; che nel
1944 vendette il brevetto, per una cifra irrisoria, a uno dei suoi
finanziatori francesi; e che, in ogni caso, le prime biro arrivarono in
Europa subito dopo la guerra. Certo, se la penna a sfera fosse stata messa
in circolazione prima della guerra, non ci sarebbe nulla di troppo strano e
di troppo sospetto nel fatto che lunghi passi del Diario di Anna Frank sono
stati
scritti con la biro. Ma, purtroppo per il Diario (di Anna Frank) e per il
"Diario" (di Deaglio), le cose non andarono in questo modo.
A p. 40, Gyula Gömbös fonda il Partito della Difesa della
Razza. È falso. La formazione politica diretta da Gömbös si chiamava Unione
Ungherese di Difesa Nazionale (Magyar Országos Védelmi Egyesület). A quale
"razza" si sarebbe mai potuto richiamare un nazionalista ungherese?
Sempre a p. 40, ce n'è una un po' più grossa. Rievocando il progetto
sionista di Theodor Herzl, Deaglio menziona le "terre spopolate" della
Palestina (SIC!!!)
Alle pp. 50-51 si parla del rogo dei libri di autori ebrei decretato dal
governo ungherese nel 1944. Secondo Deaglio, "la lista comprendeva
centoventi autori ungheresi e centotrenta stranieri". A volte Deaglio mette
a confronto eventi storici interbellici ed eventi postbellici analoghi.
Stavolta però si guarda bene dal farlo, altrimenti dovrebbe parlare del rogo
dei libri "di ispirazione fascista e antidemocratica" che fu decretato il 28
aprile 1945 dal governo di Béla Miklós, il badoglio ungherese. Se la lista
dei libri proibiti compilata nel 1944 comprendeva in tutto duecentocinquanta
autori, la lista compilata dal governo democratico si estendeva per
centosettanta pagine e conteneva qualche migliaio di titoli.
A p. 59 l'emblema delle Croci Frecciate è descritto così: "il
simbolo della Corona di Santo Stefano trafitta dalle frecce, e non molto
dissimile dalla svastica hitleriana". Bisogna dire che la fantasia
iconopoietica di Deaglio è piuttosto fervida, dal momento che il simbolo
crocefrecciato, invece, consisteva più semplicemente in una croce greca con
i bracci terminanti a punta di freccia.
Ma l'argomento in cui Deaglio scatena completamente la propria fantasia è
quello della demografia ebraica in Ungheria. A p. 37 gli ebrei della
piccola Ungheria sono il "cinque per cento della popolazione totale del
paese", vale a dire una percentuale corrispondente all'incirca alla cifra di
35.000. Invece a p. 119 gli ebrei della "Grande Ungheria" (cioè l'Ungheria
successiva all'arbitrato di Vienna, comprensiva della Transilvania del Nord)
sono valutati nella cifra di 825.000. Eppure a p. 48 ce n'erano, nel
medesimo periodo, 700.000. A p. 114, Adolf Eichmann riesce a sterminarne
5.000.000!!! Un vero e proprio miracolo, che fa il paio con quello della
penna a sfera usata da Anna Frank prima che Bíró la inventasse.
Claudio Mutti
LE BANALITÀ DI DEAGLIO
Se si vuole capire subito quale sia il grado di attendibilità del
libro di Enrico Deaglio intitolato La banalità del bene. Storia di Giorgio
Perlasca, (Feltrinelli, Milano 2002), bisogna cominciare con l'esaminarne la
parte intitolata "Notizie sparse dal dopoguerra".
Si tratta di un'appendice alquanto raccogliticcia, nella quale
è contenuta la bibliografia che Deaglio vuol far credere di aver consultata.
Il primo riferimento bibliografico consiste in quel "bel ritratto della vita
a Budapest in un quartiere ebraico durante la guerra" che è costituito dai
libri di Giorgio e Nicola Pressburger. (Per chi non lo sapesse, i gemelli
Pressburger arrivarono in Italia nel 1956. Nicola, ora defunto, fece
ovviamente una rapida carriera nel giornalismo, mentre Giorgio dirige oggi
l'Istituto Italiano di Cultura nella capitale ungherese ed è celebre per
avere stabilito che "la cultura italiana è Benigni, non Ariosto"). Tra i
libri dei Pressburger citati da Deaglio è degno di menzione quello in cui
viene ricordato con accenti commossi l'Inno alla merda (sic), composto da
uno dei due gemelli per rendere omaggio "con parole solenni alla materia che
domina il mondo, provoca le gioie più lievi e il dolore più
profondo"(L'elefante verde, Marietti, Genova 1988, p. 73).
Passando dalla coprolalia alla storiografia, tra i "pochi libri di
storia che trattano dell'Ungheria durante la seconda guerra mondiale"Deaglio
cita I falsi fascismi di Mariano Ambri, L'epoca delle rivoluzioni nazionali
di Michele Rallo e Roma-Berlino-Salò di Filippo Anfuso. Di Ferenc Szálasi
viene citato soltanto il Discorso agli intellettuali (in un "Quaderno del
Veltro" del 1977), ma vengono ignorati i discorsi contenuti in Kitartás!
(Ed. di Ar, 1974) e anche il più recente Diario dal carcere
(All'insegna del Veltro, 1997).
Più che ovvia la poca familiarità dello "storico" Deaglio con la
pubblicistica crocefrecciata; ma neanche con la saggistica
liberaldemocratica egli sembra trovarsi a suo agio. Di István Bibó,
infatti, viene citata l'edizione francese (L'Harmattan 1986) del saggio
sulla Miseria dei piccoli Stati dell'Europa occidentale. È comprensibile che
non venga citata l'edizione italiana (Il Mulino 1994), che tra l'altro è
stata finanziata da un ente filantropico non ignoto a Deaglio, ossia la
Fondazione Soros; ciò è dovuto al fatto che la prima edizione della Banalità
di Deaglio risale al 1991 e le edizioni successive (fino all'undicesima del
2002) non sono più state aggiornate. Ma è evidente che Deaglio non ha letto
neanche l'edizione francese da lui citata, perché egli scrive,
testualmente,che il libro di István Bibó contiene una "riflessione sugli
avvenimenti ungheresi, con particolare riguardo all'antisemitismo". Di un
particolare riguardo all'antisemitismo, invece, nel saggio di Bibó non c'è
neanche l'ombra, nemmeno in quei capitoli (il secondo e il quarto) che
meglio si sarebbero prestati a trattare di tale argomento.
A riferimenti bibliografici così abborracciati, sommari e
disinvolti, corrisponde d'altra parte, nella Banalità del bene, una
rievocazione dei fatti storici che, per usare un eufemismo, definiremo
"giornalistica" e degna in particolare del "Diario" diretto da
Deaglio.Citiamo soltanto alcuni punti, a titolo di esempio.
A p. 35 Deaglio dice che gli ebrei venivano "accusati" dagli
Ungheresi di avere aderito alla Repubblica dei Consigli presieduta
dall'"ebreo Béla Kun". Di fronte alla parola "accusati", il lettore è
indotto a pensare che tale "accusa" non fosse necessariamente fondata, ma
procedesse da un preconcetto atteggiamento antisemita. Infatti Deaglio
evita accuratamente di dire che gli ebrei d'Ungheria avevano effettivamente
e massicciamente appoggiato la Repubblica dei Consigli, i dirigenti della
quale, d'altronde, erano quasi tutti ebrei.
Sempre a p. 35 si afferma che, dopo la prima guerra mondiale, tra i
territori ungheresi ceduti al nuovo Stato jugoslavo vi fu anche la Slovenia.
Uno studente di liceo dovrebbe sapere che nell'Impero austro-ungarico la
Slovenia era governata da Vienna, non da Budapest; Deaglio invece lo ignora.
Ancora a p. 35, l'Ungheria degli anni Venti e Trenta è un paese
"profondamente cattolico". Forse il "profondamente" è di troppo. E non solo
perché lo Stato ammetteva il divorzio; non solo perché, oltre ai cattolici
c'erano ebrei e luterani, rappresentati gli uni e gli altri alla Camera
Alta; ma anche perché in Ungheria era (ed è) molto consistente la comunità
calvinista, tant'è vero che la terza città del Paese, Debrecen, è nota come
"la Roma calvinista".
A p. 39, Deaglio dice che László József Bíró era a
Budapest,tra le due guerre, quando inventò la penna a sfera. A questo
proposito,sarebbe stato interessante precisare che Bíró ottenne il brevetto
della sua invenzione nel 1938; che iniziò a produrla in proprio negli anni
della seconda guerra mondiale, quando ormai si trovava in Argentina; che nel
1944 vendette il brevetto, per una cifra irrisoria, a uno dei suoi
finanziatori francesi; e che, in ogni caso, le prime biro arrivarono in
Europa subito dopo la guerra. Certo, se la penna a sfera fosse stata messa
in circolazione prima della guerra, non ci sarebbe nulla di troppo strano e
di troppo sospetto nel fatto che lunghi passi del Diario di Anna Frank sono
stati
scritti con la biro. Ma, purtroppo per il Diario (di Anna Frank) e per il
"Diario" (di Deaglio), le cose non andarono in questo modo.
A p. 40, Gyula Gömbös fonda il Partito della Difesa della
Razza. È falso. La formazione politica diretta da Gömbös si chiamava Unione
Ungherese di Difesa Nazionale (Magyar Országos Védelmi Egyesület). A quale
"razza" si sarebbe mai potuto richiamare un nazionalista ungherese?
Sempre a p. 40, ce n'è una un po' più grossa. Rievocando il progetto
sionista di Theodor Herzl, Deaglio menziona le "terre spopolate" della
Palestina (SIC!!!)
Alle pp. 50-51 si parla del rogo dei libri di autori ebrei decretato dal
governo ungherese nel 1944. Secondo Deaglio, "la lista comprendeva
centoventi autori ungheresi e centotrenta stranieri". A volte Deaglio mette
a confronto eventi storici interbellici ed eventi postbellici analoghi.
Stavolta però si guarda bene dal farlo, altrimenti dovrebbe parlare del rogo
dei libri "di ispirazione fascista e antidemocratica" che fu decretato il 28
aprile 1945 dal governo di Béla Miklós, il badoglio ungherese. Se la lista
dei libri proibiti compilata nel 1944 comprendeva in tutto duecentocinquanta
autori, la lista compilata dal governo democratico si estendeva per
centosettanta pagine e conteneva qualche migliaio di titoli.
A p. 59 l'emblema delle Croci Frecciate è descritto così: "il
simbolo della Corona di Santo Stefano trafitta dalle frecce, e non molto
dissimile dalla svastica hitleriana". Bisogna dire che la fantasia
iconopoietica di Deaglio è piuttosto fervida, dal momento che il simbolo
crocefrecciato, invece, consisteva più semplicemente in una croce greca con
i bracci terminanti a punta di freccia.
Ma l'argomento in cui Deaglio scatena completamente la propria fantasia è
quello della demografia ebraica in Ungheria. A p. 37 gli ebrei della
piccola Ungheria sono il "cinque per cento della popolazione totale del
paese", vale a dire una percentuale corrispondente all'incirca alla cifra di
35.000. Invece a p. 119 gli ebrei della "Grande Ungheria" (cioè l'Ungheria
successiva all'arbitrato di Vienna, comprensiva della Transilvania del Nord)
sono valutati nella cifra di 825.000. Eppure a p. 48 ce n'erano, nel
medesimo periodo, 700.000. A p. 114, Adolf Eichmann riesce a sterminarne
5.000.000!!! Un vero e proprio miracolo, che fa il paio con quello della
penna a sfera usata da Anna Frank prima che Bíró la inventasse.
Claudio Mutti