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Firenze, 28 febbraio 1921
(troppo vecchio per rispondere)
pirex
2024-03-02 22:29:18 UTC
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Alessandro Barbero: la Storia
Roberto Neri

La rappresaglia fascista che il 28 febbraio 1921 dispiegò la sua brutalità
per le strade di Firenze fu, fino a quel momento, la più sanguinosa
compiuta dal nascente regime col supporto della forza pubblica entro gli
attuali confini italiani.

�� La vicenda inizia nei giorni precedenti;
Dino Perrone Compagni (1878 – 1950) famoso per millantare un titolo
nobiliare decaduto, in qualità di capo fascista della regione incita gli
squadristi ad assalire con maggior veemenza gli avversari politici.
A farne le spese sono alcuni comuni “rossi”, e le organizzazioni
avversarie; il 26 febbraio in città vengono distrutti gli uffici de “La
Difesa”, periodico socialista.
Poco dopo mezzogiorno di domenica 27 una bomba, forse anarchica, lanciata
nella centralissima piazza Antinori contro una parata di nazionalisti, ex
combattenti e camicie nere, strazia un agente e uno studente.

Nei concitati momenti che seguono, i carabinieri freddano il ferroviere
ventenne Gino Mugnai, socialista, estraneo al fatto.
Per punire i “sovversivi” e vendicare lo scoppio, i turbolenti seguaci
toscani di Mussolini danno vita per le strade di Firenze ad una prolungata
caccia all’uomo in cui decine di pestaggi si susseguono.
Intorno alle 18 una squadraccia raggiunge il palazzo di via Taddea 2,
poco distante dal complesso di San Lorenzo, e tre di loro salgono le
scale.

In tutto l’edificio c’è solo il noto sindacalista Spartaco Lavagnini, 31
anni, che lavora alla scrivania dove prepara il prossimo numero del
periodico “Azione comunista” da lui diretto.
I tre squadristi armati irrompono nella stanza e colpiscono Lavagnini a
sangue freddo, più volte, uccidendolo, poi gli ficcano un mozzicone tra i
denti, lo deridono sistemando il cadavere sulla sedia e se ne vanno
indisturbati.

Durante la notte i fascisti vengono accolti nelle caserme di Firenze,
ospiti delle forze dell’ordine, per rifornirsi di armi mentre giungono
rinforzi, come la colonna spezzina guidata da un giovanissimo Galeazzo
Ciano.
Nelle stesse ore i cittadini contrari agli squadristi si asserragliano
nei quartieri di Santa Croce, Oltrarno e San Frediano, bloccano i ponti,
erigono barricate e preparano la difesa delle loro sedi, dei circoli di
mutuo soccorso e delle cooperative, consapevoli che il peggio deve ancora
venire.

Lo sciopero generale indetto quasi subito dai colleghi di Lavagnini blocca
il nodo di Firenze spezzando il traffico ferroviario del regno d’Italia,
ma non impedisce all’esercito di circondare i rioni popolari schierando
anche pezzi di artiglieria.
Verso mezzogiorno del 28 febbraio diversi squadristi de “la Disperata”
(nella foto) entrano a San Frediano però si ritrovano circondati e
chiedono aiuto;
è il pretesto atteso dai militari per intervenire con centinaia tra fanti
e bersaglieri in soccorso dei fascisti.
Dietro la forza pubblica, decine di altri camerati vengono lasciati
liberi, anche oggi, di completare la vendetta.

Solo la mattina del 1 marzo Firenze, dopo vari scontri, sarà pacificata al
costo di 12 cittadini uccisi (16 secondo altre fonti), 4 fra agenti e
soldati caduti, e numerosi feriti; devastati la Camera del lavoro, la sede
della Fiom e altri sodalizi antifascisti dalle camicie nere protette dalla
forza pubblica.
La rappresaglia si sposterà nei centri vicini come Scandicci e Sesto
Fiorentino dove altri democratici perderanno la vita. Centinaia di loro
finiranno in galera in attesa di processo.

Ma delle “giornate di Firenze” il fascismo celebrerà in seguito una figura
in particolare, quella di Giovanni Berta, 27 anni, simpatizzante fascista
non coinvolto negli scontri, che mentre transita su un ponte ha un
diverbio con alcuni insorti e finisce nell’Arno, da cui riaffiorerà
cadavere giorni dopo.
A Berta sarà intitolato il nuovo stadio, alcune canzoni del regime,
pubblicazioni, “santini”, numerose squadracce, e varie strade in tutta
Italia di cui alcune tuttora esistenti.

Carlo Olivieri, prefetto di Firenze, nei giorni successivi dichiarerà la
sua “soddisfazione per la severa lezione data agli estremisti grazie al
sorgere potente e audace del fascismo”.
La violenta reazione contro i moti fiorentini colpirà pure i sindaci di
vari municipi toscani costretti a dimettersi e sostituiti da commissari
nominati dalla Prefettura.
In tutta Italia nei primi sette mesi del 1921 le giunte comunali
socialiste o popolari che cadranno per i soprusi fascisti saranno circa
300.

�� Per l’omicidio di Lavagnini i tre assassini verranno assolti qualche
mese più tardi e, dopo la Liberazione, nel processo rifatto da capo,
godranno degli effetti dell’amnistia.
Infine, delle altre camicie nere protagoniste in negativo dei moti di
Firenze, il “marchese” Perrone Compagni, mandante morale del delitto, farà
una brillante carriera durante il regime, così pure il violento Tullio
Tamburini (1892 – 1957) capo indiscusso dei manganellatori fiorentini;
anche il famigerato squadrista Amerigo Dùmini (1894 – 1967) non pagherà
per quei crimini.

(Fonti principali: articolo del 6 marzo 2018 di Giacomo Turci dal suo sito
“La voce delle lotte”; saggio del 18 ottobre 2021 pubblicato dall’autore
Riccardo Michelucci nel proprio sito internet; la foto de “La Disperata” è
di pubblico dominio in rete).

<https://www.facebook.com/photo?fbid=7541327202584418&set=gm.3786178741639469&idorvanity=2630211550569533>
--
pirex, stesso nick da oltre vent'anni
pirex <***@pakita.sus>

Diffidate dei poveri mentecatti, odiatori di professione, bugiardi
xenofobi nazifascioidi dai mille nick
che per farsi leggeggere le loro Fake News utilizzano anche il mio nick
ultra ventennale

https://tinyurl.com/2natj737
--
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Sargon
2024-03-03 21:19:47 UTC
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Post by pirex
Intorno alle 18 una squadraccia raggiunge il palazzo di via Taddea 2,
poco distante dal complesso di San Lorenzo, e tre di loro salgono le
scale.
Post by pirex
In tutto l'edificio c'è solo il noto sindacalista Spartaco Lavagnini, 31
anni, che lavora alla scrivania dove prepara il prossimo numero del
periodico "Azione comunista" da lui diretto.
I tre squadristi armati irrompono nella stanza e colpiscono Lavagnini a
sangue freddo, più volte, uccidendolo, poi gli ficcano un mozzicone tra
i denti, lo deridono sistemando il cadavere sulla sedia e se ne vanno
indisturbati.
Per l'omicidio di Lavagnini i tre assassini verranno assolti
qualche mese più tardi e, dopo la Liberazione, nel processo rifatto da
capo, godranno degli effetti dell'amnistia.
Infine, delle altre camicie nere protagoniste in negativo dei moti di
Firenze, il "marchese" Perrone Compagni, mandante morale del delitto,
farà una brillante carriera durante il regime, così pure il violento
Tullio Tamburini (1892 – 1957) capo indiscusso dei manganellatori
fiorentini; anche il famigerato squadrista Amerigo Dùmini (1894 – 1967)
non pagherà per quei crimini.
(Fonti principali: articolo del 6 marzo 2018 di Giacomo Turci dal suo
sito "La voce delle lotte"; saggio del 18 ottobre 2021 pubblicato
dall'autore Riccardo Michelucci nel proprio sito internet; la foto de
"La Disperata" è di pubblico dominio in rete).
<https://www.facebook.com/photo?fbid=7541327202584418&set=gm.3786178741639469&idorvanity=2630211550569533>

Aggiungo il racconto del Cantagalli.
« Una squadra molto numerosa, di una trentina di
uomini, fu notata da molta gente in via de' Ginori
[...] Il dettaglio che maggiormente colpì i passanti
[...] fu che tutti i membri della squadra avevano in
pugno una rivoltella: la tenevano con la canna in
alto poggiata sulla spalla destra. Più d'uno poté
quindi riconoscerli e soprattutto constatare, magari
involontariamente, che tutti erano armati.
Il gruppo proseguì, sempre con il medesimo aspetto
truce, e prese a sinistra per via Taddea. Erano le
17,30 circa, forse poco più: l'ora del tramonto. Al
numero 2 della contrada avevano la loro sede, al
primo piano, il sindacato dei ferrovieri, la
federazione provinciale comunista (aperta in quei
giorni e in via di organizzazione) e la redazione di
« Azione comunista ». Il grosso della squadra attese
in strada, in silenzio. Salì il comandante, quello
che poco prima aveva ordinato il saluto, insieme ad
altri due. La persona che essi cercavano – segretario
del sindacato e direttore del giornale – doveva
essere lì, al lavoro. Si doveva agire con prudenza:
nel caso ci fossero stati altri si sarebbero fatti
salire i rinforzi[...]
L'uomo era seduto al suo tavolo e aveva in bocca la
sigaretta. Sentì del rumore verso la porta ma non
alzò neanche la testa. Aspettava qualcuno: « avanti,
avanti » avrà detto, o qualcosa di simile. Quando
levò gli occhi, il comandante – nobiluomo e
proprietario terriero – gli stava davanti, a un metro
di distanza, e gli puntava la rivoltella in mezzo
alla fronte. Era un ottimo tiratore, il comandante,
ma con il primo colpo prese la vittima sotto il naso,
sulla sinistra. L'uomo piegò la testa, urtò contro il
tavolo e cadde sul pavimento. Il secondo colpo lo
raggiunse ancora sulla sinistra, nell'orecchio: il
corpo ebbe un sobbalzo e si rovesciò sulla destra.
Altri proiettili raggiunsero l'uomo alla spalla e
all'ascella sinistra, in parti sicuramente vitali. La
vittima ormai rimaneva immobile.
Così si svolse il delitto. Ci si domanda, perché il
gentiluomo (di cui nessuno fa il nome, a
cinquant'anni di distanza) volle macchiarsi di quel
sangue? La cosa fu trovata di dubbio gusto, a quanto
si dice, da altri nobili. Non mancavano infatti gli
uomini pronti a eseguire: due al suo fianco,
venticinque almeno in attesa al piano terreno. Forse
il vecchio cacciatore volle riservare per sé il
privilegio della posta reale (sparare per primo sulla
selvaggina inerme) o forse attribuirsi l'onore di
compiere il « volere di Dio »: secondo l'altro nobile
compare, il mandante, questo volere consisteva
nell'assassinare a tradimento Spartaco Lavagnini
[...]
E ancora: perché muoversi in trenta contro uno? Solo
perché questa era la consuetudine? La ragione si può
forse dedurre da quanto racconta il vecchio
Banchelli, secondo il quale sembra « che i più noti
figuri della locale politica rossa scampassero da
sicura morte per miracolo. Il Lavagnini aveva tenuto
consiglio di guerra nella stanza dove fu ucciso.
Erano intervenuti al grande consiglio nei locali di
via Taddea gli on. Targetti, Frontini, Garosi, una
femminetta, lo Smorti, il Caroti ed altri ». E nel
1923, quando scriveva il suo libro, il Banchelli si
mordeva ancora le mani: « Se [...] arrivavano dieci
minuti prima che il grande soviet fosse sciolto
chissà che festa generale sarebbe successa! ».
I tre devastarono il mobilio, frugarono nei cassetti,
ammucchiarono una congerie di carte e appiccarono il
fuoco. Prima di fuggire uno di loro si avvicinò al
cadavere e forse ricordandosi che alla vittima, sotto
la furia dei colpi, era caduta la sigaretta « lo
prese per il capelli e gli sollevò la testai
appoggiandola allo schienale della sedia: nel viso
bianco gli occhi erano aperti e fissi. Lo sparatore
si tolse di bocca la sigaretta e la mise tra i denti
del morto ». Non si creda che questa sia una macabra
illazione. I Fratelli della Misericordia trovarono la
vittima col mozzicone di sigaretta in bocca, e un
avvocato fiorentino (uomo di indubbia serietà) ci ha
confermato di recente che l'atto fu compiuto da uno
dei tre. Nei giorni immediatamente successivi al
crimine, uno di questi, che conosceva bene il legale,
nel timore di dover rendere conto alla giustizia, si
recò da lui in tutta segretezza a chiedere consiglio:
« Mi ci hanno incastrato; io credevo si trattasse di
arrestarlo. Sono innocente, non ho fatto nulla. La
colpa è d'uno, d'uno solo... di quello che ha
sparato. E... per uno che avesse presa una cicca, una
cicca di sigaretta, e l'avesse messa in bocca al
morto, c'è penale, avvocato, mi dica, c'è penale? ».
Il segreto della professione, come è giusto, non
consente all'avvocato di far nomi, ma non impedisce,
all'uomo e allo storico, di accreditare la truce
versione che neppure i compagni comunisti, come
vedremo dal loro manifesto, arrivarono a sospettare ».

Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino
1919-1925, Vallecchi editore, Firenze, 1972, pp. 157
159.
--
Saluti
Sargon

Almirante difendeva la razza.
Io difendo la memoria.
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