artamano
2004-08-10 17:52:46 UTC
INVOLUZIONE.
IL SELVAGGIO COME DECADUTO
di Silvano Lorenzoni
INDICE
INTRODUZIONE: CONTRAPPOSIZIONE EVOLUZIONE-INVOLUZIONE
I PARTE. IMPOSTAZIONE DEL PROBLEMA
1 Il fatto razziale
1.0 Introduzione: il fatto razziale come fenomeno obiettivo
1.1 Teoria tradizionale delle razze: Julius Evola
1.2 Distribuzione delle razze: il meticciato
1.2.0 Introduzione
1.2.1 Distribuzione delle razze
1.2.2 Il meticciato come meccanismo di formazione di nuove razze
1.2.3 Il problema delle razze standard: importanza di pigmei e pigmoidi
2 Classificazione delle culture selvagge: l'asse Nord-Sud
2.0 Introduzione: correlazione tra fatto razziale e fatto culturale
2.1 Le culture selvagge secondo Wilhelm Schmidt e rielaborazione della sua
classificazione
2.1.1 Pigmei
2.1.2 Antartici
2.1.3 Culture meticce o tropicali
2.2 Gli 'uomini scimmia' e il neandertaliano
2.3 Le scimmie e gli insetti sociali
2.4 Geografia della barbarie: l'asse Nord-Sud
3 Cenni storici
3.0 Introduzione
3.1 Il selvaggio come decaduto: da Joseph De Maistre a Julis Evola
3.2 La decadenza come problema della storia comparata delle religioni
4 La fisima evoluzionistica e la posizione dell'uomo nel Cosmo
4.0 Intoduzione
4.1 Il darwinismo: sua matrice biblio-talmudica
4.2 Gli argomenti statistici
4.3 Antichità vera e diffusione dell'uomo
5 La valutazione del tempo
6 Il ricordo della decadenza
6.0 Introduzione: identificazioni storiche e ricordi ancestrali
6.1 Origine umana del subumano e dell'animale
6.2 Il selvaggio vede sé stesso come un decaduto: 'neritudine' del male
6.3 Ricordi e proiezioni biologiche ed etologiche
7 L''uomo fuori dal tempo': Edgar Dacqué
8 Il mito polare e il concetto di campo antropogenico
8.1 La 'luce del Nord'
8.2 Il concetto di campo antropogenico
8.3 I continenti perduti
II PARTE. TRACCE EMPIRICHE DELL'INVOLUZIONE E CASISTICHE PARTICOLARI
1 Argomenti tratti dalla linguistica
1.0 Introduzione: la lingua come 'specchio dell'anima' e psicologia
linguistica
1.1 Alcune casistiche specifiche
1.1.1 Lingua parlata e lingua liturgica
1.1.2 Il numero
1.1.3 Le lingue dei pigmei
1.1.4 L'inflazione lessicale e lo spreco del gerundio
1.2 Carenza di percezione del futuro del selvaggio e suo riflesso nella
lingua
1.3 L'americano, lingua bantà del futuro
1.3.1 Introduzione: caratteristiche bantù dell'americano
1.3.2 L'americano è un 'papiamento': il meticciato linguistico
1.3.3 L'americanizzazione linguistica del Sud del Mondo
1.3.4 Confronto con le lingue boscimanesche
2 Argomenti tratti dalla storia comparata delle religioni
2.0 Introduzione
2.1 Il culto astrale
2.2 Il deus otiosus
2.2.1 Il 'monoteismo primordiale' di Wilhelm Schmidt e il deus otiosus di
Mircea Eliade
2.2.2 Fenomenologia generale
2.2.3 Percorso storico del deus otiosus fino alle casistiche contemporanee
2.3 La banalizzazione delle iniziazioni
2.3.1 L'iniziazione
2.3.2 Fenomenologia generale
2.3.3 Percorso storico della banalizzazione delle iniziazioni fino alle
casistiche contemporanee
3 Argomenti tratti dalla storia culturale
3.0 Introduzione
3.1 Il possesso del fuoco
3.2 L'organizzazione 'politica'
3.3 L'indirizzo 'economico'
3.4 Petroglifi, megaliti, artefatti e alfabeti incomprensibili
4 Il selvaggio e la psicopatologia
4.0 Introduzione
4.1 Labilità psicologica del selvaggio e sue analogie con la schizofrenia
nell'uomo civile
4.2 Tendenza alla tossicodipendenza e all'etilismo
4.3 Psicopatologia sessuale
5 Il Sud del Mondo quale nicchia patologica
5.0 Introduzione
5.1 Concetto di nicchia patologica: il Sud del Mondo come meganicchia
patologica
5.2 Patologie contemporanee e future
5.2.1 L'AIDS
5.2.2 Patologie 'in agguato'
5.3 Patologia demografica del Sud del Mondo e sua probabile implosione
biologica
III PARTE. ANDAMENTI METASTORICI E PROIEZIONI
1 Il fattore psichico nell'andamento razziale
1.0 Introduzione
1.1 Lo scambio psicofisico
1.1.1 Influsso psicofisico dell'ambiente: Juluis Evola
1.1.2 Origine degli ebrei e realtà di una razza ebraica
1.1.3 L'ecumene semitico-negroide
1.2 La 'minaccia del subumano'
2 Involuzione autogena ed eterogena
2.1 Andamento storico della distribuzione razziale: i pigmei quali 'decaduti
puri' e gli altri selvaggi insorti per meticciato
2.2 Mediterranei e ainu
2.3 Gli indoeuropei e la 'razza nordica'
3 Casistiche contemporanee e prospettive
3.0 Introduzione
3.1 I nuovi pigmei
3.2 Ebrei, chazari, calvinisti
3.3 Confronto fra il mondo preistorico e quello contemporaneo: uno scenario
possibile
-----------------------------------------------------------
INTRODUZIONE: CONTRAPPOSIZIONE EVOLUZIONE-INVOLUZIONE
Man lebt nicht nur sich selbst zur Freude, sonder auch seinen Feinden zum
Trotz [Non si vive soltanto per propria soddisfazione, ma per sfidare i
propri nemici].
Manfred Roeder (1).
Quello che importa è essere nel mondo contemporaneo, sempre pronti a
confrontarsi con esso e ad accogliere le sue sfide, senza essere di questo
mondo, appartenendo a un'altra razza, a un altro stile, legati ad altri miti
e ad altri valori.
Adriano Scianca (2).
La moda culturale contemporanea impone la Weltanschauung evoluzionistica,
secondo la quale ogni cosa ha la sua scaturigine in qualcosa di 'meno':
dalla bestia all'uomo, dalla barbarie alla civiltà, ecc. Quindi anche nel
selvaggio (ormai a ogni effetto pratico estinto, nella sua forma prisca,
perché è stato obiettivo di etnocidio premeditato) si deve vedere l'immagine
di quello che dovette essere l'antenato dell'uomo civile (modernisticamente:
'quello che possiede un'avanzata tecnologia') - antenato che poi, in ragione
di cause fortuite ambientali e mai dipendenti dalla natura intrinseca di
alcuni umani che li avrebbe resi diversi da altri, in qualche posto si
sarebbe 'evoluto' mentre in altri esso sarebbe rimasto allo stato
originario.
Secondo il punto di vista opposto, sostenuto validamente da diversi
pensatori (sul lato storico si riverrà in dettaglio al Cap. 3 di questa I
parte), nei selvaggi - nei cosiddetti Naturvölker, secondo la terminologia
degli etnologi tedeschi dell'Ottocento, poi resasi di uso generale - si ha
da vedere residui degenerati di genti che negli eoni del passato furono
civili e che, come conseguenza di fatti non solo biologici o storici ma
anche metabiologici e metastorici, presero la via della decadenza e
dell'animalizzazione (cfr., in particolare, il Cap. 6 di questa I parte, i
Capp. 1 e 2 della II parte e il Cap. 1 della III parte). Il selvaggio non
verrebbe a essere, quindi, un uomo preistorico, ma post-storico.
Lo scrivente, avendo appreso e fatto suo questo secondo punto di vista -
pure condiviso da diversi notevoli studiosi - già all'inizio degli anni
Settanta, non ebbe modo di rintracciare una trattazione sistematica
dell'argomento: ed è del tutto probabile che essa non esista proprio. Egli
si sobbarcò quindi l'onere di mettere insieme, attraverso decenni, spezzoni
di informazione, usando l'insieme dei quali egli ha adesso proceduto alla
stesura di questo libro che viene a essere, quasi sicuramente, l'unica opera
che abbia la pretesa di affrontare questa problematica sotto ogni
angolatura.
Nella I parte si imposterà il problema in modo generale e facendo il punto
di una serie di aspetti pertinenti a questo studio. Avendo fatto ciò, si
renderanno esplicite e documentate due tematiche, fra loro non disgiunte e
ambedue della massima importanza:
(a) L'etnologia, interpretata in modo giusto, dimostra che presso i selvaggi
rimane un'impronta del loro passaggio involutivo; e questo sarà affrontato
nella II parte. Si prenderanno in considerazione gli aspetti linguistici,
religiosi, culturali, psicopatologici, sanitari. Saranno ipotizzati i
processi storici per il percorso discendente da un'umanità superiore a una
inferiore, con riferimento a certe fenomenologie contemporanee che tali
processi storici potrebbero rispecchiare. Questo, sarà portato a termine
nella II parte.
(b) Si vorrà dimostrare come adesso stia prendendo forma una condizione che
potrebbe innescare, su scala planetaria, una morfologia sociale e culturale
quale essa poté essere nella cosiddetta 'alta preistoria'. Adesso, dunque,
ci si potrebbe trovare sull'orlo di un 'frattale nel tempo' che potrebbe
avere luogo, storicamente parlando, anche molto presto (fatti pure i dovuti
distinguo sulla qualità del tempo storico, cfr. il Cap. 5 di questa I
parte). Questo, sarà l'assunto della III parte.
Vale una nota sull'informazione di cui si possa disporre e della quale ci si
deva accontentare. È certo che mai si disporrà di tutta l'informazione
esistente (su qualsiasi argomento); e che anche se si potesse averla non
basterebbero tre vite per leggerla e valutarla tutta. Bisogna perciò usare
il proprio giudizio per decidere quando se ne ha a sufficienza per dare
forma al proprio assunto. Letture mirate, scelte con criteri statistici
validi - includendo la stampa quotidiana, che al giorno d'oggi è una fonte
importantissima di informazione - risultano adeguate e, in numero
ragionevole, servono a dare quella visione d'insieme che è quasi sempre
sufficiente. Nel caso specifico dello scrivente, egli ha attinto anche alle
sue esperienze e osservazioni personali fatte nel trascorso della sua
permanenza pluridecennale nel 'Sud del Mondo'.
Sandrigo (Vicenza),
inverno 2003/2004.
note:
(1) Manfred Roeder nella lettera circolare mensile Deutsche Bürgerinitiative
(Schwarzenborn, Hessen), N. 6/2001.
(2) Adriano Scianca nel mensile "Orion" (Milano), settembre 2003.
---------------------------------------
------------------------------------------
I PARTE. IMPOSTAZIONE DEL PROBLEMA
CAP. 1. IL FATTO RAZZIALE
1.0 Introduzione: il fatto razziale come fenomeno obiettivo
Le caratteristiche pongidi (scimmiesche) di quasi tutti i selvaggi erano
state descritte in modo ineccepibilmente obiettivo ed esplicito dagli
studiosi seri di razziologia; e dopo che, nel 1945, in Europa - e non solo -
calarono le tenebre, ci sono stati forse solo due autori, ambedue
americanofoni, che possano essere classificati come ricercatori seri nel
campo della razziologia: John Baker (1) e Carleton Coon (2), alle cui opere
si farà spesso riferimento nel corso di questa trattazione. Essi furono
studiosi seri nel senso che il loro obiettivo fu quello di descrivere
scientificamente i fatti razziali e non di 'dimostrare' -
'scientificamente', è chiaro - che il medesimo è inesistente, in obbedienza
alla pressione della moda culturale contemporanea e alla convenienza di non
mettersi contro coloro da cui dipendono stipendi e prestigiose posizioni.
Carleton Coon pagò la sua onestà intellettuale con l'esclusione dal posto di
lavoro e il silenzio mediatico nei suoi confronti (3). Ma il 'caso Coon' non
è certo unico: moltissimi sono stati gli scienziati che per essersi messi
contro la dogmatologia imperante hanno pagato caramente le loro coraggiose
prese di posizione (4). E di dogmatologia si può parlare a buon diritto: in
America si sta meditando di togliere i fondi agli specialisti della genetica
del comportamento con il pretesto che le loro ricerche potrebbero fomentare
il 'razzismo' (5).
Il problema della vera natura del selvaggio va abbinato alla fenomenologia
delle razze umane (6). Quindi, si può iniziare la trattazione del nostro
soggetto a una disamina del fatto razziale e della sua realtà. Da notarsi
che, dal punto di vista strettamente biologico, alla stessa specie (non alla
stessa razza) appartengono tutti quegli individui che sono interfecondi
(cioé: il meticciato è fra di loro possibile e il meticcio è a sua volta
fecondo); quindi, a buon diritto, si può parlare di una specie (non di una
razza) umana, costituita dall'ecumene di tutti quegli individui incrociabili
con un dato gruppo (umano) scelto come 'indicatore' (standard) di ciò che si
deve intendere per 'umano' (e all'interno di questa 'umanità' la biologia
distingue razze e sottorazze, come fa con qualsiasi altra specie animale o
vegetale - in riguardo, un ottimo riferimento è l'appena citato John Baker).
Qui, premesso che il problema della razza (si veda più avanti, in
particolare il Cap. 2 di questa I parte e il Cap. 2 della III parte) è non
solo biologico ma anche, e forse soprattutto, metabiologico, sia ricordato
che, in fondo, quando si voglia prescindere da ogni riferimento metafisico,
a volere circoscrivere l''umano' non ci si può aggrappare a niente di più
solido che definire come tale colui che sia accettato come 'umano'
all'interno di una comunità che a sua volta si autodefinisce umana (7). Si è
davanti a una situazione analoga a quella che Ludwig Wittgenstein (8) aveva
incontrato nel suo studio del linguaggio, non potendo concludere di meglio
che il 'significato' di una parola è quello che a essa scelgono di
attribuire coloro che la usano.
Adesso, gli aderenti e i sacerdoti dell'establishment 'democratico' aggirano
il problema seguendo due angolature diverse: (a) la prima, più rozza, è
quella di ammettere che le razze umane esistono ma che si tratta di fatti
esclusivamente morfologici senza alcun connotato psicologico o di capacità
intellettuale o di prestazione; (b) la seconda, più 'scientifica', è quella
di negare la razza senza mezzi termini, presentando il fenomeno razziale,
quale esso si manifesta nella realtà percepibile, come una specie di 'fata
morgana'. Ambedue queste pretese saranno brevemente esaminate.
Per quel che riguarda il caso (a) , invariabilmente si fa dell'eccezione la
regola - "ho conosciuto un negro/un boscimano/un australiano così
intelligente" - senza poi rendersi conto, in buona o in cattiva fede, che
quel selvaggio "così intelligente" sembra essere tale soltanto perché è
valutato contro un Hintergrund di suoi simili che 'così intelligenti' non
sono di certo. Quanto quel selvaggio 'così intelligente' riusciva a fare,
sarebbe stato più o meno quello che qualsiasi europeo o nord-est-asiatico,
magari di bassissima capacità (valutata in confronto ad altri europei o
nord-est-asiatici, magari addirittura 'mongoloide'), sarebbe stato
agevolmente capace di fare. E comunque, Rémy Chauvin, etologo-principe,
assieme a Konrad Lorenz, della seconda metà del secolo XX, ci assicura che a
qualsiasi animale si può insegnare a fare praticamente qualsisi cosa, basta
mettercisi d'impegno (9): nei primi anni del secolo XX uno spagnolo, certo
Leopoldo Lugones, aveva insegnato a uno scimpanzé a parlare con linguaggio
umano - la povera bestia, che si spaventava al suono della sua nuova voce,
morì presto per effetti nervosi (10).
Molto più calzanti sono state osservazioni fatte da persone non obnubilate
da lavaggi cerebrali in senso 'ugualitarista' (11). Valga un ottimo esempio,
tolto dal 'taccuino personale' dello scrivente: una distinta signora di
origine est-europea, che lo onorò della sua amicizia, gli riferì (12) come
essa, preposta a certi lavori di giardinaggio artistico, si doveva servire
del lavoro di una squadra di selvaggi ('inciviliti') dai quali lei, a
differenza di tanti altri europei che il medesimo tipo di manodopera
dovevano utilizzare, riusciva a ottenere delle buone prestazioni - e qusto
essa lo attribuiva ad avere messo a profitto dell'esperienza ottenuta nella
sua terra d'origine dove era stata insegnante in un'istituzione per
deficienti mentali (13).
Il caso (b) è solo apparentemente meno grossolano, perché qui ci si spaccia
per 'scienziati'; e al giorno d'oggi chi parla in nome della 'scienza'
(quella ufficiale, che fa il buono e il cattivo tempo nelle cattedre
universitarie e che gode delle casse di risonanza mediatiche) ha sempre
ragione. Un vizio di questa 'scienza' è quello di fare continuamente
confusione - generalmente in cattiva fede - fra la realtà fattuale, o
presunta tale, e l'apparato matematico utilizzato per descriverla. Anzi, la
simbologia matematica e le montagne di dati opportunamente 'macinati' usando
il calcolatore elettronico vengono presentati come la realtà 'reale', mentre
quello che si vede, palpa e ode non viene a essere se non una specie di
fantasma - quando la realtà non coincide con l'output del calcolatore
(opportunamente programmato per dare risultati che non urtino con la moda
culturale), tanto peggio per la realtà. Adesso, l'establishment
'scientifico' ha messo mano a una struttura miracolosa (14), il cosiddetto
DNA, dalle proprietà della quale deriverebbe tutto ciò che è vivente (15) -
quindi, si pontifica, siccome le differenze statistiche (magari stabilite ad
hoc per 'dimostrare' certe tesi) fra il DNA di diverse razze sono inferiori
a determinati limiti, esse 'scientificamente' sono indistinguibili. (Sia qui
riportato che con questo argomento ci è stato chi ha voluto includere le
scimmie antropomorfe fra gli umani [16].)
Non a caso, nei testi seri di razziologia - prima della guerra, soprattutto,
ma anche dopo, tipo quelli dei già citati John Baker e Carleton Coon, ma
anche il gesuitico ma onesto antropologo Vittorio Marcozzi (17) - nel
descrivere i diversi tipi razziali accompagnavano il testo da immagini
fotografiche che permettevano al lettore di di orientarsi quando dovesse
giudicare a quale razza potesse appartenere un qualche individuo che gli
stesse davanti. Adesso si danno 'mappature di DNA' cha a nessuno possono
servire da guida pratica (non solo ai 'non iniziati': letteralmente a
nessuno). Un libro particolarmente squallido - ma illustrativo per quel che
riguarda questo argomento - è stato recentemente pubblicato da due
conosciuti tromboni dell'establishment, certi Luigi Cavalli-Sforza e Alberto
Piazza (18); secondo i quali la razza (per loro un fatto esclusivamente
somatico: l'intellligenza, invecece, dipende da molti geni che non c'entrano
con quelli che determinano la 'razza' e quindi fra le due cose non ci può
essere alcuna correlazione) dipende solo da una piccolissima parte del
genoma e riflette soltanto l'ambiente in cui le diverse stirpi umane sono
vissute negli ultimi 100.000 anni (già, l'uomo, per forza, non può esistere
se non da 100.000 anni ed essersi 'evoluto' darwinisticamente - cfr. il Cap.
4 di questa I parte). Ne concludono (difficilmente potrebbero continuare a
tirare il loro stipendio se concludessero diversamente, vedi più sopra cosa
successe a Carleton Coon) che "la razza, scientificamente, non esiste più",
che "la purezza della razza non è un vantaggio ed è la più stupida proposta
che sia stata fatta" e che si prevede il meticciato universale, fatto molto
conveniente dal punto di vista 'genetico'. A questo punto vale la pena di
citare quanto asserito dagli autori neomarxisti Michael Hardt e Antonio
Negri (19) secondo i quali (in ragione dei progressi riduzionisti della
biologia, che di tutto fanno 'mappature di DNA'), viene non solo a cadere il
fatto razziale, ma anche la distinzione fra uomo, animale e cyborg (essere
metà biologico e metà meccanico/elettronico) - si potrebbero aggiungere,
perché no, anche le piante a questo elenco (20). E siccome gli appena citati
Luigi Cavalli-Sforza e Alberto Piazza raccomandano il meticciato, si
potrebbe aggiungere che l'incrocio con animali e piante, sicuramente
eseguibile con tecniche OGM, potrebbe essere il prossimo passo verso uno
straordinario miglioramento della cosiddetta umanità.
1.1 Teoria tradizionale delle razze: Julius Evola
Avendo menzionato il fatto che la razza è un fatto non solo biologico ma
anche e soprattutto metabiologico, è il caso di dare un'idea estremamente
schematica della teoria tradizionale delle razze, che diverrà della massima
importanza per quel che segue di questo libro, in particolare i Capp. 1 e 3
della III parte. Questa teoria (21), il cui sviluppo è dovuto quasi
esclusivamente a Julius Evola, è basata sull'assegnazione di caratteri
razziali propri a ognuna delle tre componenti che, tradizionalmente,
costituiscono il 'composto umano': corpo, anima e spirito (22). Il corpo
viene a essere la manifestazione tangibile e visibile dell'individuo - umano
e non-umano -, mentre lo spirito ne è il 'pricipio informatore' metafisico,
posto fuori dal tempo, che ne dirige la prassi e il pensiero in senso
anagogico o catagogico. L'anima, o psiche, "è connessa a ogni forma vitale
così come a ogni forma percettiva e a ogni passionalità. Con le sue
diramazioni inconsce stabilisce la connessione fra spirito e corpo" (23).
Essa, come il corpo, è peritura, ed è il fattore determinante per lo stile
della persona - per il modo in cui essa affronta ogni compito, ma senza
alcun riferimento al valore etico del compito stesso. "Gli uomini sono
diversi non solo nel corpo ma anche nell'anima e nello spirito ... la
dottrina della razza deve articolarsi in tre gradi " (24). Quindi: c'è una
razza del corpo, una dell'anima e una dello spirito, ognuna delle quali è
suscettibile di classificazione, e questo Julius Evola lo ha affrontato
nella sua Sintesi di dottrina della razza, mentre una versione semplificata
fu da egli esposta in un suo libretto didattico, Indirizzi per un'educazione
razziale (25). Per quel che riguarda la razza del corpo e dell'anima, Julius
Evola si appoggiava ai lavori degli antropologi seri dei suoi tempi - in
particolar modo Hans F. K. Günther, un autore sul quale si avrà occasione di
ritornare nella III parte, e Ludwig Ferdinand Clauss (26) -, che però si
occupavano essenzialmente delle differenze esistenti fra i diversi tipi
umani riscontrabili in Europa o al massimo nel Medio Oriente. Egli invece
propose, in via del tutto indipendente, una classificazione delle razze
dello spirito - in riguardo il lettore è riferito ai testi originali.
Per quel che riguarda il nostro assunto, di fondamentale importanza è che
"l'un elemento cerca di trovare, nello spazio libero che le leggi
dell'elemento a esso immediatamente inferiore gli lasciano, una espressione
massimamente conforme ... non semplice riflesso, ma azione a suo modo
creativa, plasmatrice, determinante" (27). In altre parole, le razze
dell'anima e dello spirito che interengono in ogni composto umano
abbisognano di un 'supporto adeguato' a livello immediatamente inferiore.
Ben difficilmente una razza dello spirito di 'prima qualità' potrà tovare
spazio accanto a un'anima che non le sia strumento adeguato per
manifestarsi; e lo stesso dicasi per la razza dell'anima rispetto a quella
del corpo.
Questo tipo di considerazioni danno adito anche ad altri sviluppi, adombrati
dallo stesso Julius Evola, che sono gravidi di conseguenze per le
problematiche qui sotto esame. "Una idea, dato che agisca con sufficiente
intensità e continuità in un determinato clima storico e in una data
collettività finisce con il dare luogo a una 'razza dell'anima' e, con il
persistere dell'azione, fa apparire nelle generazioni che immediatamente
seguono un tipo fisico comune nuovo da considerarsi ... una razza nuova"
(28). Cioé: il cambiamento nella 'qualità psichica' di una determinata
popolazione può innescare cambiamenti anche morfologici. Questo
ragionamento, portato alle sue ultime conseguenze, adombra un possibile
effetto a catena. In una popolazione nella quale lo spirito, magari per
qualche imperscrutabile ragione, si sia spento o capovolto, si produrranno
prima fenomeni degenerativi di tipo psicologico che poi, alla lunga, non
mancheranno di rifletttersi anche nel soma (su di questo argomento si
riverrà nella III parte).
1.2 Distribuzione delle razze: il meticciato
1.2.0 Introduzione
Si vuole adesso fare riferimento ai risultati dell' antropologia
geografica - la geoantropologia - quali essi sono stati sistematizzati dagli
antropologi fisici (e solo marginalmente psicoantropologi) più seri. Si fa
riferimento soprattutto al lavoro di Roberto Biasutti (29) e di Egon von
Eickstedt (30) - proseguiti validamente, dopo la guerra, da Vittorio
Marcozzi (31). Salvo indicazioni in senso contrario, il materiale empirico
utilizzato in quel che resta di questo capitolo è tratto dai lavori di
questi tre autori. Quanto sistematizzato qui sotto è della massima
importanza, come riferimento empirico, per quanto si avrà da dire al Cap. 3
di questa I parte e, in generale, in quanto segue di questo libro.
È ovvio che allo studio della distribuzione delle razze si deve anteporre
una loro classificazione; problema che si rivela complesso e che, in questa
sede, non sarà discusso in dettaglio (il lettore interessato si riferisca ai
testi specialistici originali). - La più antica delle classificazioni,
quella di Arthur de Gobineau (32) (fatta verso la metà dl secolo XIX), per
quanto piuttosto semplicistica ('bianchi', 'gialli', 'neri'), aveva già
allora colto il nocciolo del problema. Quando si dia uno sguardo 'dall'alto'
alla distribuzione razziale umana su scala globale, senza badare a distinguo
eccessivamente sottili, ci si rende conto che la 'semplicistica'
classificazione del de Gobineau era abbastanza azzeccata.
1.2.1 Distribuzione delle razze
Indipendentemente da qualsiasi classificazione dettagliata delle diverse
tipologie umane, la distribuzione della specie Homo sapiens su scala globale
presenta il seguente aspetto:
(a) Un ecumene 'settentrionale'/boreale/artico - il Nord del Mondo - il
'mondo civile'-, nel quale troviamo tipi e individui umani dotati di alta
potenzialità intellettiva e creatrice, facitori di civiltà e di storia.
Siamo davanti a quelle che Gaston-Armand Amaudruz (33) chiamò le grandi
razze e Silvio Waldner (con espressione mutuata da Umberto Malfronte) le
'razze di cultura' (34).
(b) Un ecumene 'meridionale'/australe - il Sud del Mondo - nel quale
troviamo tipi umani pochissimo dotati dal punto di vista intellettivo e
creativo, dall'intelligenza larvale e la pelle scura. Siamo davanti alle
'razze di natura' di Julius Evola e di Silvio Waldner (35).
Naturalmente, le 'zone d'ombra' non mancano, ma la visione d'insieme è
esatta. E, fatta questa constatazione, emerge subito un problema
metodologico che ancora non ha trovato soluzione (e difficilemente la potrà
avere, almeno se vogliamo seguire soltanto gli indirizzi della scienza
'positiva', sia pure in modo ineccepibilmente onesto e rigoroso). Mentre nel
caso delle razze di cultura l'identificazione è (abbastanza) agevole, dal
punto di vista sia morfologico che psicoantropologico - una razza europide
('bianca') e una nord-est-asiatica ('mongoloide/gialla') -, il Sud del Mondo
presenta un'incredibile varietà e confusione; tutta una fantasmagoria di
tipologie diverse che in comune, molto spesso, non hanno se non la brutalità
morfologica e l'infimo livello culturale. Ci si trova confrontati con un
genuino liquame genetico all'interno del quale è certamente difficile
raccapezzarsi: ma i tentativi fatti per trovare dei fili conduttori hanno
portato a ulteriori importanti sviluppi.
1.2.2 Il meticciato come meccanismo di formazione di nuove razze
Ancora nell'anteguerra si era affacciata l'idea che il meticciato potesse
essere un meccanismo formante di nuove razze. Date due (o più) razze che,
almeno come ipotesi di lavoro, sono presupposte 'pure', che vengono a
coabitare per lunghissimo tempo in determinate proporzioni numeriche in una
medesima area geografica all'interno della quale esse si mescolano, sempre
fra di loro, senza che ci siano altri apporti esterni che ne modifichino le
proporzioni originali o che introducano altre componenti genetiche, alla
lunga viene a formarsi quella che, a buon diritto, può essere chiamata una
'nuova razza'. Questa nuova razza presenterà una media dei caratteri delle
razze formanti, in modo uniforme e senza quegli sbalzi statistici estremi da
individuo a individuo che ci sono nelle fasi iniziali del meticciato. Così,
si può parlare di una 'razza etiopica' - o 'camitica', secondo la
terminologia dell'anteguerra -, misto europide-negroide; e di una razza
'indostana', misto europide-australoide; ambedue razze che, in ragione della
prevalenza dei caratteri europidi venivano e vengono, qualche volta,
classificate come varianti di una (malamente definita) 'razza caucasoide',
nella quale si ammucchiavano tutte le fenomenologie razziali che in qualche
modo potessero ricordare l'europeo. - A puntare l'attenzione sul fatto
'meticciato' sono stati, dopo la guerra, soprattutto i già citati Carleton
Coon e John Baker.
Nell'anteguerra - ma anche il già citato Vittorio Marcozzi - si esercitava
una notevole flessibilità nel classificare il fatto razziale, con la
conseguenza che si attribuiva una 'razza' particolare a tutta una pletora di
raggruppamenti umani. - Quando invece si metta a fuoco il fenomeno del
meticciato come meccanismo-principe per la genesi di nuove razze, insorge
naturalmente la domanda di quali veramente devano essere le razze standard
dalle quali si devano prendere le mosse per poter dire che altri tipi umani
sono il risultato di 'incroci stabilizzati' (questo argomento, di notevole
importanza, sarà sfiorato nella prossima sezione).
Il fatto che il meticciato sia e sia stato il più probabile 'motore' per la
genesi di nuove razze - soprattutto nel Sud del Mondo - è nel contempo
strano e conturbante. Questo fenomeno, storicamente, si è sempre dato quando
razze diverse si sono trovate a condividere lo stesso territorio; eppure,
invariabilmente, esso è sempre stato visto come qualcosa 'contro natura'.
Delle indicazioni in riguardo sono date da Julius Evola (36) - ma cfr. anche
Silvio Waldner (37) -, mentre John Baker (38) ci assicura che nella mancanza
di preferenza sessuale esclusiva per partner della propria razza,
presupposto necessario per il meticciato, si deve vedere un genuino fenomeno
di bestialità. E addirittura nell'estremo meridionale del Sud America, fra
gli ormai estinti indigeni della zona, il cosiddetto guaicurú - incrocio
fueghino-tehuelche, quindi un meticcio molto relativo - era visto come un
mostro, sia dai fueghini che dai tehuelche (39).
1.2.3 Il problema delle razze standard: importanza dei pigmei
Le razze standard sono sempre delle fabbricazioni più o meno soggettive e
teoriche basate sull'astrazione di un qualche insieme di caratteri somatici:
si definisce come 'puro' un individuo (spesso raramente riscontrabile nella
pratica) che rappresenti quei caratteri in modo esatto. Ci saranno poi
popolazioni che li rappresentino con tanta approssimazione da poter essere
esse stesse classificate, a ogni effetto pratico, come 'pure'; mentre altre
saranno più o meno ovviamente meticce. Anche se questo procedimento ha
dell'artificiale, se è usato da scienziati seri e onesti, essa ha certamente
una sua validità. E scienziati onesti e seri hanno cercato di astrarre, a
partire dall'osservazione delle popolazioni fattualmente esistenti, quali
dovevano essere le caratteristiche di quelli che, temporibus illis, dovevano
essere stati i tipi 'puri'; e quindi quali fra le popolazioni osservate li
rappresentassero con il massimo di approssimazione (si studiavano con
particolare attenzione ceppi che, presumibilmente, si erano mantenuti
isolati per tempi lunghissimi). Prima che gli svariati Luigi Cavalli-Sforza
ecc. (vedi più sopra) avessero pontificato l'inesistenza 'scientifica' delle
razze, si era approdati a riconoscere cinque (bianca, mongoloide, negra,
australoide e capoide o boscimanesca), e più probabilmente sei (con
l'aggiunta di quella amerindia), 'razze standard'. Queste sei razze essendo
poi classificabili in svariati tipi o sottorazze. - Carleton Coon vedeva
negli amerindi non una razza specifica ma una variante della razza
mongoloide, discendente da individui penetrati in America attraverso lo
stretto di Behring nell'alta preistoria (40), passaggio del quale (lo
concede lo stesso Coon) non c'è alcuna traccia di alcun tipo, paleontologico
o archeologico. Anche le lingue amerindie non hanno alcuna correlazione con
quelle siberiane (41). L'autottonia dell'uomo americano era stata sotenuta
invece, già nei primi anni del secolo XX, dal brillante studioso argentino
Florentino Ameghino (42). Non è chiaro perché Carleton Coon rifiutasse le
conclusioni di Ameghino, che invece avrebbero collimato perfettamente con la
sua teoria delle origini pitecoidi autonome delle diverse razze umane.
Ma la classificazione proposta non esauriva l'argomento. Dobbiamo al già
citato Carleton Coon (43) l'avere indicato che, almeno in un caso, una razza
standard (specificamente, quella negra, ma l'argomento è facilmente
estendibile ad altre), anche se poteva continuare a essere trattata come
tale con fini di riferimento descrittivo, era dal punto di vista storico una
razza di secondo grado. E il Coon mette a fuoco l'attenzione sul fatto
'pigmei', genti esistenti fino a recentemente a macchia di leopardo in tutti
i tropici, oggi fattualmente estinti prima per etnocidio e, dopo la
decolonizzazione, per genocidio. Queste genti, sulle quali ci si dilungherà
nel prossimo capitolo (ma anche nel Cap. 1 della III parte), rappresentavano
culturalmente (assieme forse ai tasmaniani e a qualche popolazione
dell'Africa meridionale già quasi estinta ai tempi della prima
colonizzazione europea) l'ultimo gradino della specie; e il Coon le
classifica tutte come morfologicamente negroidi (assieme ai tasmaniani e a
certe popolazioni della Papuasia e dell'India sud-orientale), benché
occupassero luoghi geografici distanti l'uno dall'altro e non avessero
contatti reciproci. E anche se il Coon non parla mai di una 'razza
pigmoide', egli ipotizza (documentatamente) che i pigmei dell'Africa fossero
i 'veri' negri, dai quali poi i negri che noi conosciamo e che costituiscono
la popolazione di quasi tutta l'Africa, sarebbero derivati attraverso
incrocio con genti 'caucasoidi' (cioé europidi, nella terminologia del Coon)
e 'capoidi' (boscimanesche) arcaiche. Nessuna ipotesi è stata fatta
sull'origine dei pigmei, che però già nel secolo XIX erano visti come forme
umane degenerate da notevoli antropologi (44). L'argomento del Coon è
suscettibile di generalizzazione, e questo sarà fatto nel prosieguo (III
parte).
(1) John Baker, Race, Oxford University Press , Oxford (Inghilterra), 1974.
(2) Carleton Coon, Las razas humanas actuales, Guadarrama, Madrid, 1969;
Storia dell'uomo, Garzanti, Milano, 1956.
(3) Il Coon, pure evoluzionista darwinista assolutamente convinto, era
arrivato alla strana conclusione che le diverse razze umane provenivano da
antenati 'pitecoidi' indipendenti e che poi, per 'evoluzione convergente',
esse erano arrivate a essere interfeconde. Le sue disgrazie incominciarono
allora, perché quanto egli venne ad asserire contraddiceva il dogma
dell'origine unitaria dell''umanità'. Cfr. Sergio Gozzoli nella rivista
"L'uomo libero" (Milano), N. 54, ottobre 2002.
(4) Un illuminante florilegio in riguardo, che copre tutti i rami della
scienza, è stato messo assieme da Federico di Trocchio, Le bugie della
scienza, Mondadori, Milano, 1997. Per quel che specificamente riguarda il
campo della paleontologia umana, si consulti Michael Cremo e Richard
Thompson, Archeologia proibita, la storia segreta della razza umana, Futura,
Milano, 1997.
(5) Notizia riportata in Rémy et Bernadette Chauvin, Le monde animal et ses
comportements complexes, Plon, Paris, 1977.
(6) Una buona introduzione in riguardo è quella di Silvio Waldner, La
deformazione della natura, Ar, Padova, 1997.
(7) Cfr. Vincenzo Tagliasco, Dizionario degli esseri umani fantastici e
artificiali, Mondadori, Milano, 1999.
(8) Cfr. Kurt Wucherl und Adolf Hübner, Wittgenstein, Rowohlt, Reinbek bei
Hamburg, 1979.
(9) Cfr. Rémy et Bernadette Chauvin, Monde, cit.
(10) La notizia è riportata da Giuseppe Sermonti, La Luna nel bosco,
Rusconi, Milano, 1985.
(11) Dei calzanti esempi, per quel che riguarda l'Africa e gli africani
trapiantati in America, sono dati da John Baker, Race, cit.
(12) In Iberoamerica, nella primavera del 1983.
(13) Alla fine degli anni Cinquanta un conosciuto psichiatra iberoamericano
scrisse sui giornali che gli abitanti di colore del suo paese, in Europa
sarebbero stati classificati come deficienti mentali.
(14) L'espressione è dovuta al più grande matematico della seconda metà del
XX secolo, il recentemente scomparso René Thom, Parabole e catastrofi, Il
Saggiatore, Milano, 1980.
(15) In riguardo a questa pretesa, Giovanni Monastra (Maschera e volto degli
OGM, Settimo Sigillo, Roma, 2002) ha scritto delle righe scientificamente
ineccepibili e molto acute.
(16) Cfr. Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(17) Vittorio Marcozzi, L'uomo nello spazio e nel tempo, Ambrosiana, Milano,
1953.
(18) Luigi Cavalli-Sforza e Alberto Piazza, Storia e geografia dei geni
umani, Adelphi, Milano, 2001.
(19) Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002.
(20) Lo scrittore fantastico norvegese Ludvig Holberg, nel suo Il viaggio
sotterraneo di Niels Klim, Adelphi, Milano, 1994 (originale 1741), aveva
ipotizzato un 'luogo' nel quale uomini, animali e piante avevano tutti il
diritto alla cittadinanza, purché avessero l'uso della ragione.
(21) Di questa teoria, un riassunto molto schematico è dato da Silvio
Waldner, Deformazione, cit.
(22) Sulla dottrina tradizionale del composto umano cfr. Julius Evola,
Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Mediterranee, Roma, 1971
e anche Sintesi di dottrina della razza, Ar, Padova, 1994 (originale 1941).
Un sunto di questa dottrina è dato anche da Silvano Lorenzoni, Chronos,
saggio sulla metafisica del tempo, Carpe Librum, Nove, 2001.
(23) Julius Evola, Sintesi, cit.
(24) Julius Evola, Sintesi, cit.
(25) Julius Evola, Indirizzi per un'educazione razziale, Conte, Napoli,
1941.
(26) Ludwig Ferdinand Clauss, Rasse und Seele, Lehmann, München, 1941.
(27) Julius Evola, Sintesi, cit.
(28) Julius Evola, Sintesi, cit.
(29) Roberto Biasutti, Razze e popoli della Terra, UTET, Torino, 1941.
(30) Egon von Eickstedt, Rassenkunde und Rassengeschichte der Menschheit,
Strecker und Schröder, Stuttgart, 1937.
(31) Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(32) Arthur de Gobineau, Essai sur l'inégalité des races humaines, tr. it.
Ar, Padova, 1964.
(33) Gaston-Armand Amaudruz, Nos autres racistes, Éditions Celtiques,
Montréal (Canada), 1971.
(34) Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(35) Julius Evola, Sintesi, cit., Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(36) Julius Evola, Sintesi, cit., e anche Il mito del sangue, Ar, Padova,
1994 (originale 1937).
(37) Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(38) John Baker, Race, cit.
(39) La notizia è data dallo storico cileno Armando Braun Meléndez, Pequeña
historia magallánica, Francisco de Aguirre, Buenos Aires y Santiago, 1969
(originale 1937). "Las sangres puras, aun en las razas más inferiores del
género humano, pueden ofrecer algún individuo presentable. Pero mézclense
balancos, negros e indios entre sí y se obtendrán ... gestaciones
denigrantes. El mismo indio patagón, o sea el tehuelche puro, despreciaba y
perseguía al guaicurú [Il sangue puro, anche fra le razze più inferiori del
genere umano, può dare origine a qualche individuo presentabile. Ma si
mescolino bianchi, negri, indios e si otterranno ... risultati denigranti.
Lo stesso indio patagone, ossia il tehuelche puro, disprezzava e
perseguitava il guaicurú]".
(40) Sulla problematica del primo popolamento delle Americhe, valido è il
testo di Paul Rivet, Les origines de l'homme américain, Gallimard, Paris,
1957.
(41) Diverso é il caso degli esquimesi, arrivati in America nel I millennio
a.C. e del cui passaggio esistono abbondanti tracce archeologiche (anche la
lingua e la cultura esquimese sono di tipo siberiano). Cfr. il quotidiano
"Il Giornale" (Milano) del 27 ottobre 2001.
(42) Cfr. numero speciale del quotidiano "La Nación" (Buenos Aires,
Argentina) dl 25 luglio 1910 e anche Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(43) Carleton Coon, Razas, cit.
(44) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
CAP. 2 CLASSIFICAZIONE DELLE CULTURE SELVAGGE:
L'ASSE NORD-SUD
2.0 Introduzione: correlazione tra fatto razziale e fatto culturale
Ancora prima di decretare d'ufficio che 'scientificamente' le razze non
esistono, l'establishment aveva decretato, parimenti d'ufficio, la totale
mancanza di correlazione fra razza (definita morfologicamente) e cultura. La
realtà reale subiva in questo modo un attacco, come è abitudine inveterata
degli 'scienziati' ufficiali ogni qual volta essa si discosta dal dogma - di
questo si è già parlato.
È invece vero che tra forma antropologica ('razza') e cultura c'è una import
ante correlazione, della quale si erano accorti gli etnologi seri del
passato - in primis Wilhelm Schmidt (1) che nella sua opera monumentale
illustra questo fatto implicitamente ma in modo eccellente. Esplicita,
invece, su questo punto, almeno per quel che riguarda le culture dei pigmei,
è la distinta studiosa Ester Panetta (2) - e anche se non è del tutto chiaro
se sipossa parlare di una 'razza pigmoide' (ormai comunque estinta a ogni
effetto pratico) si ricordi che il già citato Carleton Coon classificava
tutti i pigmei, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, come
'negroidi' (assieme ai tasmaniani e a qualche altra popolazione di infimo
livello culturale). Ma, a parte i pigmei, che costituiscono un fenomeno
etnologico unico e interessantissimo, parallelismi culturali si trovano
spesso fra popolazioni selvagge disparate che in comune hanno non l'area
geografica ma soltanto la brutalità morfologica. - Qui vale un appunto sul
grado di 'primitività' che si deva attribuire a determinate popolazioni: a
parte i tasmaniani e i pigmei e pigmoidi, è opinione diffusa, ma quasi
sicuramente sbagliata, che i più 'primitivi' del mondo fossero gli
australiani e i boscimani. È invece probabile che questa loro non
invidiabile posizione la dovessero solo al fatto del loro isolamento. Studi
fatti su popolazioni africane che, presumibilmente, erano rimaste in
condizioni simili di isolamento, indicano un grado di primitività ancora
superiore a quello di australiani e boscimani. John Baker (3) indicava come
tutti i tratti culturali di 'alto' livello (si fa per dire) riscontrabili
nell'Africa subsahariana sono dimostrabilmente d'importazione. Wilhelm
Schmidt (4) mette specificamente a fuoco i dama delle montagne dell'Africa
sud-occidentale ex-tedesca, genti negroidi purissime (dal fisico striminzito
e nerissimi di pelle) dal livello culturale inferiore a quello dei
boscimani; al punto di essere stati vassalli dei boscimani e poi degli
ottentotti (meticci negroide-boscimanesco) dei quali adottarono la lingua
che pure parlano malamente. Nel dama si ha quasi sicuramente da vedere il
negro allo stato più culturalmente puro. Ma ci sono altri casi documentati
di assoggettamento, per tempo più o meno lungo, di negri da parte di
boscimani. Sulle montagne del Drakensberg (nel territorio, grosso modo,
dell'attuale Lesotho, nell'Africa meridionale), i gruppi negroidi sotho che
arrivarono nel secolo XVI furono per oltre un secolo vassalli dei boscimani
locali (di alcuni dei cui 're' si è tramandato perfino il nome): essi non si
'liberarono' dalla loro tutela se non in ragione del differenziale di
prolificità, molto più alto fra di loro che fra i loro 'signori' (5).
Ancora nella seconda metà del secolo XIX, un acuto autore boero aveva
osservato che, contrariamente a ogni apparenza, gli australiani, sotto tanti
punti di vista, erano meno diversi dai bianchi che non lo fossero i 'cafri'
(6).
2.1 Le culture selvagge secondo Wilhelm Schmidt e rielaborazione della sua
classificazione
2.1.0 Introduzione
Wilhelm Schmidt (7) classifica le culture più 'primitive' secondo il
seguente schema (accettato anche da Mircea Eliade):
(a) Cultura primordiale centrale (Zentrale Urkultur): pigmei e pigmoidi;
(b) Cultura primordiale meridionale (Südliche Urkultur):
sud-est-australiani, tasmaniani, boscimani, fueghini;
(c) Cultura primordiale artica: Siberia e America settentrionale;
(d) Cultura del bùmeran (8): Australia centrale, occidentale e
settentrionale.
Questa classificazione può essere presa come punto di partenza, ma necessita
di rielaborazione.
Per quel che riguarda la 'cultura primordiale artica', probabilmente si
tratta di un abbaglio: nell'Asia settentrionale essa è strutturalmente
simile alle culture centroasiatiche (9) e la sua 'primitività' tecnologica
ha forse da attribuirsi alla specializzazione e all'isolamento in cui quelle
popolazioni si vennero a trovare per lungo tempo e in clima ostile, come
poté essere il caso degli esquimesi. E qualsiasi accostamento con le culture
americane - sulle quali difficilmente si può tirare alcuna conclusione -
risente del fatto che anche Wilhelm Schmidt aderisce al mito culturale
dell'origine siberiana degli amerindi.
Viceversa, in vista delle considerazioni fatte nella sezione anteriore,
sembrerebbe che anche la cultura africana, nella sua forma originale della
quale rimanevano vestigia anche in tempi storici, deva essere inclusa nella
'cultura primordiale meridionale'. Quanto ai pigmoidi, un gruppo
culturalmente e fisicamente malamente difinibile (e fra i quali bisognerebbe
classificare anche i boscimani), probabilmente non costituiscono una classe
a sé (a differenza dei pigmei) e dovrebbero essere distribuiti fra diversi
altri gruppi culturali. Per quel che riguarda la 'cultura del bùmeran, essa
non sembra distinguersi da quella 'meridionale' se non per un livello
tecnico leggermente più alto, ma non nel lato religioso o linguistico (10):
è probabile che, come in Africa, anche se in minore misura, essa ha
usufruito di 'prestiti'.
Perciò si propone, almeno dal punto di vista strumentale, di classificare le
culture del Sud del Mondo in tre grandi gruppi:
(a) Culture pigmee;
(b) Culture 'antartiche' - grosso modo, le südliche Urkulturen di Wilhelm
Schmidt più quella del bùmeran;
(c) 'Culture meticce', quali, essenzialmente, potevano essere le culture
della fascia tropicale al momento della prima penetrazione di quelle zone da
parte di europei e giapponesi.
Ognuno di questi raggruppamenti sarà brevemente considerato dal punto di
vista geografico e culturale.
2.1.1 Pigmei
A questa cerchia culturale appartenevano delle popolazioni, ormai
praticamente estinte che, a macchia di leopardo, si trovavano su tutta la
fascia tropicale del pianeta. Di statura media maschile di al massimo metri
1,50, essi rappresentavano lo scalino culturale infimo (11) in tutti i
sensi - non solo tecnico, ma anche spirituale e religioso. E, fatto
importantissimo, tutti i pigmei del mondo, avevanoi dei tratti culturali
analoghi, nonstante le grandi distanze che separavano i singoli gruppi:
anche la loro religione (se così ci si può esprimere, cfr. il Cap. 2 della
II parte) è uniforme nei suoi tratti fondamentali - così Wilhelm Schmidt
(12).
Carleton Coon (13) classifica tutti i pigmei come razzialmente 'negroidi'; e
che, oltre alla bassa statura, essi abbiano tutti un aspetto fisico analogo
è ammesso anche dallo Schmidt, il quale (in onore alla moda culturale
secondo la quale ogni specie o razza deve avere avuto un'origine unitaria e
poi essersi diffusa) pone nell'India nord-occidentale il - puramente
ipotetico - centro di irraggiamento dei pigmei (14). Il medesimo (15),
quanto alle caratteristiche culturali di tutti i pigmei, ci dice che non
sapevano accendere il fuoco o ne avevano una conoscenza 'arcaica' (su di
questo cfr. il Cap. 3 della II parte); non avevano alcuna tecnica tessile o
ceramistica; utilizzavano l'arco e le frecce ma non lo scudo; la loro
numerazione arrivava al 2 (su di questo cfr. il Cap. 1 della II parte); non
praticavano alcun tipo di mutilazione corporale; non avevano alcun capo o
dirigente 'politico' (su di questo cfr. il Cap. 3 della II parte); non
praticavano la schiavitù o il cannibalismo. Qui è assolutamente ovvio - e
questo è detto esplicitamente da una studiosa che da prova di grande onestà
intellettuale, la già citata Ester Panetta (16) - che a caratteristiche
somatiche razziali analoghe corrispondono manifestazioni culturali analoghe.
Questo fatto è disonestamente negato dalla scienza ufficiale.
I raggruppamenti di pigmei ancora esisitenti fino a 50 - 100 anni addietro
possono essere elencati, continente per continente, come segue:
(a) Africa: stanziati nella foresta equatoriale che una volta si estendeva
fra lo sbocco del Congo fino alla base degli altipiani dell'Africa orientale
(17). Ormai ridotti a qualche sparuto vestigio; in massima parte sterminati
dai negri dopo la decolonizzazione.
(b) Asia sud-orientale: (i) andamanesi, ormai ridotti a qualche individuo
isolato e snaturato per meticciato (18); (ii) semang della Malacca, ormai
estinti per meticciato e qualche volta sterminio fisico da parte dei malesi
(19); (iii) negrito di Luzón settentrionale, nelle Filippine, in una
condizione non dissimile a quella dei pigmei africani, soggetti a massacri
oppure ad acculturamento e meticciato da parte dei malesi (20).
(c) Oceania: la presenza di pigmei è stata segnalata ripetutamente
all'interno della Nuova Guinea e nelle Nuove Ebridi (21), ma sul loro conto
l'informazione è particolarmente scarsa (come lo è, in generale, su tutta la
Papuasia). Carleton Coon (22) esprime dubbi sulla natura di queste
popolazioni, che non conosceva, suggerendo che forse non si trattava di
pigmei ma 'pigmoidi' (cfr. la prossima sezione). Di pigmei veri e propri,
dando qualche fotografia ma pochi altri dettagli, parla il viaggiatore
svedese Alfred Vogel (23). I coniugi Villeminot (24), che pure danno una
descrizione molto dettagliata della Nuova Guinea, non parlano assolutamente
di pigmei. C'è da credere che una popolazione pigmea ci fosse per davvero in
Nuova Guinea, e che anch'essa sia stata vittima di etnocidio e forse
genocidio da parte dei papuasi.
(d) America meridionale: già Paul Rivet (25) - e prima di lui l'autore
iberoamericano Alfredo Jahn (26) - aveva segnalato la presenza di una
popolazione nanoide (adesso estinta) nel Venezuela occidentale. È stato
suggerito che non si trattasse di pigmei ma proprio di nani, nel senso
patologico del termine (il che, comunque, sarebbe stato lo stesso un
fenomeno interessante); ma questo non è mai stato dimostrato. - Anche nel
Brasile meridionale, da tempo antichissimo, gli indigeni avrebbero saputo
dei cosiddetti cabeça de porco [testa di maiale, in lingua portoghese],
pigmei arboricoli dalle abitudini feroci. L'ultimo a vederli sarebbe stato
il medico ed esploratore argentino Lucas Fernández Peña negli anni Quaranta
del XX secolo (27).
2.1.2 Antartici
Si tratta di una catena di popolazioni, ormai anch'esse quasi estinte, che
fino a poco più di un secolo fa abitavano l''estremo Sud' del mondo, in
tutti i continenti. Erano caratterizzati da un livello tecnico poco più alto
di quello dei pigmei; e neppure essi avevano una conoscenza propria di come
accendere il fuoco (su di questo cfr. il Cap. 3 della II parte). Almeno per
quel che riguarda i tasmaniani, alcuni etnologi si sono addirittura
dimostrati dubbiosi su dove collocarli nella classificazione delle culture:
al di sopra o allo stesso livello dei pigmei? - Ma a differenza dei pigmei,
gli antartici posseggono generalmente una ricca mitologia. Nella cerchia
culturale antartica vengono generalmente inclusi:
(a) Tasmaniani (28), del tutto estinti, che sono stati spesso descritti come
le genti più 'primitive' del mondo. Razzialmente, Carleton Coon (29) li
classifica come 'negroidi', affini alle genti africane - e linguisticamente
e culturalmente essi rappresentavano qualcosa di assolutamente unico. Eppure
gli antropologi ufficiali li fanno derivare dai sud-est-australiani "perché
qualsiasi altra possibilità è impensabile" (così come gli amerindi devono
essere di origine siberiana).
(b) Australiani, divisi in due grandi gruppi: quelli del Sud-est e quelli
della cultura del bùmeran (30). Di razza australoide, essi verrebbero a
essere, secondo Carleton Coon (31) gli 'australoidi puri'.
(c) Fueghini, dell'estremo meridionale dell'America del Sud, che vengono a
essere le genti più 'antartiche' del mondo (32). Generalmente sono
classificati in tre gruppi: yámana, nell'estremo Sud; alakaluf, leggermente
più a Nord-ovest; ona o selknam nella piana settentrionale della grande
isola della Terra del Fuoco. Questi ultimi, però, molto diversi dagli altri
due, sono da considerarsi un ramo insulare dei tehuelche, o patagoni, della
pampa. Secondo il già citato Carleton Coon (33) essi apparterrebbero alla
variante amerindia della razza mongoloide; e Wilhelm Schmidt (34) fa
derivare la loro cultura addirittura da certe culture californiane (si sa,
gli amerindi, 'siberiani', devono per forza avere progredito da Nord a Sud).
In realtà gli yámana e gli alakaluf, oltre a essere diversissimi fra di
loro, non hanno alcunché a che vedere né morfologicamente né
linguisticamente né culturalmente con qualsiasi altro raggruppamento
amerindio.
(d) Boscimani, abitanti un tempo maggioritari dell'Africa meridionale (35),
ormai ridotti sul bordo dell'estinzione attraverso meticciato e sterminio
fisico da parte dei negri che, dopo la fine del governo dei boeri in Sud
Africa, li perseguitano nelle terre che erano state a loro riservate nel
Kalahari (Botswana e Africa sud-occidentale). Sono stati classificati come
razza a sé (capoidi) da Carleton Coon e da John Baker (36). Gli ottentotti
(ormai estinti da oltre un secolo), a loro linguisticamente affini,
sarebbero, secondo i medesimi autori, il risultato di un meticciato
'stabilizzato' (razza di secondo grado, si ritorni al Cap. 1 di questa I
parte) boscimanesco-negroide.
In riguardo ai boscimani (capoidi) è interessante quanto ha da suggerire
Carleton Coon (37), secondo il quale è possibile rintracciare, anche
archeologicamente, un loro spostamento dall'Africa settentrionale, loro sede
primigenia, fino al punto morto del Capo di Buona Speranza, spostamento
accompagnato da fenomeni degenerativi nel loro aspetto fisico (non a caso,
il boscimano, quale esso ancora sopravvive in qualche individuo isolato, ha
l'aspetto di un vecchio fin dalla nascita). Dei residui capoidi sarebbero
ancora riscontrabili, sotto forma di mostruosi incroci, in certe oasi del
Sahara meridionale; mentre in Sud Africa (38) rimane ancora una nozione
leggendaria che riguarda un cactus locale, il cosiddetto halfmens ['per metà
umano' in lingua afrikaans] che è sempre inclinato verso Nord: i halfmens
sarebbeo quei boscimani che, in fuga dalle loro sedi arcaiche, si sono
fermati per guardarsi indietro.
Non è chiaro se in questa cerchia culturale si dovrebbero includere tutti i
pigmoidi, popolazioni di poco più alte dei pigmei (metri 1,60). I fueghini
yámana e alakaluf, nonché i boscimani, sono spesso classificati come tali;
ma anche e soprattutto i vedda dell'Oceano Indiano, che spesso fanno da
'ponte' fra il gruppo antartico e quello tropicale. Essi costituiscono un
tipo particolare di popolazioni che si estendono dall'Indonesia orientale (i
toala di Celebes - Wilhelm Schmidt esita fra il classificare come pigmei o
come pigmoidi i pigmei della Nuova Guinea e delle Nuove Ebridi) fino
all'India meridionale e alla parte settentrionale dell'isola di Ceylon
(tamil), dove sono ancora presenti in buon numero, sebbene di massima
deculturati (39). Veddoide sarebbe, fin dalla remota preistoria, anche la
popolazione dell'Arabia sud-orientale (40), e genti veddoidi potrebbero
essere state presenti fino in Africa sud-orientale (41), dove però adesso
non ne rimane traccia.
Anche alcune (e forse la maggioranza) delle popolazioni africane
subsahariane, tipo i già menzionati dama, normalmente dovrebbero entrare nel
gruppo antartico. - Viceversa, non è chiaro se uno strano tipo, lo
strandlooper ['camminatore delle spiagge' in lingua afrikaans] sia qui
classificabile o non piuttosto fra gli 'uomini scimmia' (cfr. la sezione che
segue). Esso certamente esisteva, almeno con qualche raro individuo isolato,
ancora in tempi posteriori alla colonizzazione del Capo di Buona Speranza.
Mai avvicinato, è stato descritto come alto, magro, nerissimo di pelle,
completamente nudo, sempre solitario (42). Di questo tipo umano, o umanoide,
sono rimasti dei resti scheletrici, e la 'scienza' ufficiale ha pontificato
che si trattava di un boscimano, o di un ottentotto, ('alquanto atipico')
che si era adattato a vivere vicino alle spiagge cibandosi di frutti di mare
(43). Rimane però il fatto che la descrizione fisica che ne hanno dato
quelli che lo hanno potuto avvistare lascia intravvedere un individuo del
tutto diverso da un boscimano (piccolo e giallastro di colorito) e invece
piuttosto simile a un tasmaniano.
2.1.3 Culture meticce o tropicali
Sotto questo titolo si includono tutte quelle culture, poste, di massima,
nei tropici, la cui 'sostanza umana' portante è quella che, ai giorni
nostri, costituisce il cosiddetto Terzo Mondo. Si tratta di culture meticce
in quanto risultato di meticciato, non di rado biologico ma invariabilmente
almeno culturale, fra genti non dissimili, come capacità 'culturale', da
quelle antartiche, ma che hanno subito un qualche influsso - culturale e/o
biologico - dalle popolazioni civili del Nord del Mondo. Esse hanno
usufruito, se così si può parlare, della maggiore vicinanza topografica al
mondo civile (44). A questo scomparto appartengono quasi interamente, in
termini contemporanei, tutta l'Africa, il Medio Oriente, l'Indostan, l'Asia
sud-orientale (non esclusa la Cina meridionale), la Papuasia, la Polinesia,
le due Americhe. Questa situazione, già reale in tempi protostorici, lo è
ancora di più adesso.
Da notarsi che fino all'espansione coloniale europea cinque secoli fa,
all'interno della zona delle culture tropicali esistevano civiltà di alto
livello, isolate l'una dall'altra - si intende parlare delle civiltà
americane, peruviana e messicana, e di quella polinesiana. Rispetto alle due
prime, Julius Evola (45) aveva osservato che esse, pur pregevolissime sotto
tanti aspetti, si dimostrarono intrinsecamente fragili e che bastò una
spinta dall'esterno, nella fattispecie dell'attacco spagnolo, per farle
crollare completamente (e qualcosa di simile si potrebbe affermare per quel
che riguarda quella polinesiana). Sta di fatto che tutte queste civiltà
erano sorrette da aristocrazie dominanti razzialmente allogene rispetto alla
massa della popolazione: non a caso le cronache spagnole parlano delle
classi dirigenti americane, soprattutto incaiche, come di genti che non
avrebbero sfigurato in Europa. - E lo stesso è probabile che fosse il caso
in Polinesia. In modo particolare, nell'isola di Pascua, c'è evidenza che il
collasso della sua cultura sia stato innescato dall'eliminazione fisica, da
parte degli iloti, di un'aristocrazia da essi razzialmente diversa, che
della cultura e della civiltà era la garante (46).
Difficile dire se queste aristocrazie, americane e polinesiane, fossero
residui non ancora denaturati per meticciato, di vecchi ceppi civili o se si
trattasse di conquistatori arrivati in tempi estremamente remoti.
2.2 Gli 'uomini scimmia' e il neandertaliano
È stata fatta l'osservazione (47) che l'uomo (si veda il Cap. 4 di questa I
parte) è sempre stato accompagnato, durante la sua esistenza sulla Terra, da
'uomini scimmia'; e che come tali devono essere visti anche quei
'pitecantropi' i cui reperti fossili (quando non si tratta di banali falsi),
vengono continuamente a galla - non si trattò di 'antecessori', e tanto meno
di antenati dell'uomo, ma di suoi contemporanei.
In particolare, soprattutto ma non esclusivamente in Europa, l'uomo fu
accompagnato per lunghissimo tempo dal cosiddetto neandetaliano, del quale
rimane un vasto repertorio fossile e le cui caratteristiche somatiche,
quindi, sono conosciute abbastanza bene (48) e le cui abitudini possono
essere ricostruite con notevole approssimazione. In particolare, esso aveva
fortissime inclinazioni cannibalesche (49), mentre il suo aspetto fisico
ricordava quello dell'australiano. La sua area di diffusione, molto vasta
(50), includeva tutta l'Europa e tutto il Nord Africa, la costa occidentale
del Mar Rosso fino all'Etiopia, il Medio Oriente, l'Iran e il Turchestan.
Esso, già negli anni Settanta, era stato messo in relazione con il
fantomatico 'uomo delle nevi (yeti)' dell'Imalaia, della Mongolia,
dell'America del Nord (51). Questa nozione ebbe poi fortuna: in un suo
eccellente articolo (52), Roberto Fondi afferma che relitti neandertaliani
potrebbero esserci nel Caucaso, nell'Imalaia, nella Malacca e, forse, in
Nuova Guinea e in Australia. Ma qui si tratta di intendersi: non c'è bisogno
di immaginarsi che si tratti sempre di 'neandertaliani', ma potrebbero
essere svariate categorie di 'uomini scimmia' ancora disseminati per il
mondo e che verrebbero a costituire un'altra 'cerchia culturale' oltre ai
pigmei, agli antartici e ai meticci, anch'essa diffusa a macchia di
leeopardo su vastissime aree.
Difatti, la presenza di 'umanoidi' ('neandertaliani') è stata segnalata
quasi dappertutto (53). I più conosciuti sono l''uomo delle nevi (yeti)'
imalaiano (54), l'alma centroasiatico e il sasquatch nordamericano (55); ma
nei testi segnalati in nota si troveranno indicazioni per tutte le altre
parti del mondo. - Nella Siberia settentrionale, un umanoide alto 2 metri,
che parla a fischi e che è capace di confezionarsi indumenti di pelle di
renna è stato segnalato nel 1979 (56) e recentemente tutta una colonia dei
medesimi sarebbe stata localizzata nella regione siberiana di Kirov sul
fiume Viatka (57). - Nella zona delle rapide dell'Orinoco, ai primi
dell'Ottocento, l'esploratore Alexander von Humboldt (58) aveva avuto
notizia della presenza di un pericoloso umanoide, notizia che lo scrivente
poté poi confermare (59). - Nella parte più alta della catena montuosa di
Perijá (che adesso fa da frontiera fra Colombia e Venezuela), oltre i 3.000
metri, secondo quanto riferivano gli (ormai estinti) indigeni yupa,
allignava un non meglio definito 'uomo delle nevi' (59).
Questi 'yeti/neandertaliani' sono spesso, anche se non invariabilmente,
descritti come pericolosi, in quanto avrebbero tendenze antropofagiche e
insidierebbero le donne umane. Alcuni di loro avrebbero la possibilità di
conversare (tipo l'orang-pendek di Sumatra o quello di Viatka in Siberia) e
il loro 'livello tecnico' verrebbe a essere molto variabile. Ma essi sono
sempre all'erta, perché sanno che dall'uomo hanno tutto da temere e
dimostrano, nel fuggire e nel nascondersi, un'intelligenza molto più che
solo scimmiesca.
Per ritornare al neandertaliano, abbiamo l'importante fatto che non sembra
che gli europei moderni, i cui antenati hanno condiviso il territorio con il
neandertaliano per migliaia di anni, mostrino alcuna traccia di meticciato
con il medesimo (60). Casi di meticciato (pure rari) quasi sicuramente ce ne
furono nel remoto passato (61): conosciutissimi sono i crani del Carmelo in
Palestina, ma crani intermedi sono stati ritrovati anche a Steinheim
(Germania) e a Baisun (Uzbekistan) (62); mentre recentissimamente lo
scheletro di un meticcio (un bambino morto ancora piccolo) è stato trovato
in Portogallo (63). - Si tratta sempre di individui morti giovani e comunque
senza lasciare progenie.
Un andamento analogo vale per i moderni yeti. La lettteratura citata indica
che dagli accoppiamenti umano-umanoide nacquero quasi invariabilmente
individui morti ancora piccoli. I già citati Cremo e Thompson (64) citano
con qualche dettaglio un caso avvenuto a fine Ottocento nel Caucaso, dove
dei meticci umano-yeti avrebbero raggiunto l'età adulta ma non avrebbero
comunque lasciato discendenza. Questi meticci ci vengono descritti come
dalla pelle scura e dai tratti 'negroidi': e quando dei montanari del
Caucaso, che presumibilmente non avevano mai visto un africano in vita loro,
facevano una descrizione del genere, sicuramente non si riferivano a
'caratteri negroidi' nel senso tecnico, ma volevano indicare la brutalità
morfologica dei soggetti.
Tutto lascia indicare che, geneticamente, umani e neandertaliani, oppure
umani e yeti, fossero e siano ormai incompatibili o quasi: non si può perciò
più parlare di appertenenza alla stessa specie. Se adottiamo la definizione
biologica standard, per cui alla stessa specie appartengono individui fra i
quali è possibile il meticciato e anche il meticcio è fecondo, il
neandertaliano e lo yeti ormai non erano/ sono, dal punto di vista
biologico, umani.
2.3 Le scimmie e gli insetti sociali
Al di sotto dei pigmei e dei 'neandertaliani' è lecito porre le bestie e, in
particolare, i quadrumani. È concepibile che qualsiasi tipo di animale si
potrebbe costruire sia una sua 'cultura' che un complesso culturale, magari
articolato a macchia di leopardo, come è stato il caso per gli infimi
livelli umani. Nel caso delle scimmie, delle pertinenti analogie con l'umano
sono state accertate dagli studi etnologici ed etologici; mentre a livelo
più basso ogni analogia o riconducibilità a paradigmi concettuali umani
diviene molto più difficile (65). - Forse qui varrebbe la pena di tentare
degli sviluppi analoghi a quanto fu tentato alla svolta del secolo XX da
Otto Weininger (66) nel suo studio sulla sessuologia: dopo avere, almeno
come ipotesi di lavoro, definito l''uomo puro' e la 'donna pura' (67), egli
pensava di poter descrivere il comportamento di ogni singolo individuo
(pure, anatomicamente, del tutto maschio o del tutto femmina)in base alla
'percentuale' di mascolinità o di femminilità presenti nella sua psiche -
percentuale che poi egli ipotizzava potesse essere variabile nel tempo (68).
Un'ovvia estensione di questo concetto è che, potendo definire cosa sono
l'umanità pura e l'animalità pura, ogni singola specie potrebbe essere
caratterizzata etologicamente dalle percentuali dell'una e dell'altra
dimostrate dalla sua psiche - questi studi, che sicuramente darebbero dei
risultati interessantissimi, non sembra siano stati intrapresi da alcuno.
Rémy Chauvin - che assieme a Konrad Lorenz e a Irenäus Eibl-Eibesfeldt è
stato l'etologo-principe del XX secolo - ha pubblicato, sull'argomento delle
società e 'civiltà' animali, degli importantissimi studi (69). In
particolare, ne risulta che le strutture sociali dei primati - in
particolare degli scimpanzé - sono perfettamente omologabili a quelle, per
esempio, dei pigmei; e che fra gli scimpanzé esistono 'capi' (e, più spesso
'capesse') in guisa non dissimile a quanto osservato nelle organizzazioni
'politiche' dei pigmei e degli antartici (si consulti, più avanti, il Cap. 3
della II parte): fra le scimmie si danno spesso genuine 'dinastie', a
carattere generalmente matriarcale. Lo studioso sudafricano Eugène Marais
(70), negli anni Trenta del secolo XX, aveva magistralmente descritto le
'assemblee' dei babbuini che ricordano stranamente quanto ha da dirci lo
storico George Stow (71) sull'aspetto della 'corte' di un capo boscimano del
Genadeberg (montagne del Drakensberg) quale fu vista, verso il 1830, da un
ragazzo boero che aveva imparato la loro lingua e che in un'occasione fece
da 'ambasciatore' presso di loro. - E anche fra le scimmie (specificamente,
gli scimpanzé) è stato ipotizzato che essi si siano ramificati in 'culture'
diverse, a seconda delle inclinazioni e capacità di stirpi diverse fra di
loro (72).
Il progressivo allontanamento dall'umano è rintracciabile nei comportamenti
e nelle organizzazioni animali (73), a seconda che anche morfologicamente
essi si allontanano dal tipo Homo sapiens. Al livello degli insetti si
ripresenta il fenomeno sociale, con caratteristiche del tutto diverse, fra
le api, le termiti, le formiche (74) - ma anche certi roditori hanno colonie
strutturalmente analoghe agli alveari, compresa la presenza di una regina
(75). Qui insorge un nuovo tipo di intelligenza, che funziona in base a
leggi statistiche (o, al massimo, cibernetiche) e che di 'umano' ha ben
poco: l'alveare, il formicaio, il termitaio hanno una loro acutissima
intelligenza collettiva, tanto più potente quanto più grande esso è,
constatabile ma assolutamente incomprensibile.
2.4 Geografia della barbarie: l'asse Nord-Sud
A questo punto si può tentare di tirare, almeno provvisoriamente, le somme
sulla distribuzione delle popolazioni incivili della Terra.
Ci sono/ci sono state 'culture' selvagge a macchia di leopardo - pigmei,
'neandertaliani' e, alla fin fine, animali - e di tipo pandemico o quasi -
antartici, meticci. se le prime - e anche quelle antartiche - sono de facto
biologicamente estinte, quella intermedia dei meticci è adesso
biologicamente ipertrofica e minaccia di sommergere il mondo (ma su di
questo cfr. il Cap. 5 della II parte).
Il 'grado di degrado' riscontrabile nelle culture selvagge pandemiche è
proporzionale al loro allontanamento dall'ecumene artico e raggiungeva il
massimo con gli antartici. È quindi palese una direzione Nord-Sud, da
civiltà a barbarie. Ogni scaturigine di civiltà viene dall'ecumene artico; e
a seconda che le popolazioni del Sud del Mondo vengono a trovarsi più
lontane dal medesimo - cioé non raggiunte dal meticciato, culturale e/o
biologico, esse sono progressivamente più selvagge. Questo è un fatto della
massima importanza, sul quale si ritornerà più avanti (Cap. 8 di questa
stessa I parte).
I più barbari fra i selvaggi si accumulavano proprio nelle terre freddissime
del bordo dell'Antartide. Questo scredita immediatamente cert bolso
'razzismo climatico' in voga soprattutto (anche se non esclusivamente) in
ambienti americanofoni: a determinare il grado di civiltà non è, se non in
infima parte, l'ambiente, ma la qualità razziale della popolazione.
L'etnologo e antropologo Heinrich Driesmans (76) faceva notare lo stato di
abbandono e di desertificazione della Mesopotamia agli inizi del secolo XX,
quando la popolazione era "turco-araba", mentre era stata un giardino sotto
l'egida dei sumeri, che razzialmente erano stati tutt'altra cosa. - Non è
accidentale che la nozione del 'razzismo climatico' è stata fatta propria
proprio dai quelle genti terzomondiali che adesso avanzano 'pretese': la
barbarie dei loro antenati sarebbe stata dovuta soltanto al fatto che le
condizioni ambientali 'facili' nelle quali essi vissero non avrebbero
provveduto lo 'stimolo' necessario perché essi sviluppassero una complessa
tecnologia, a differenza di quanto poté avvenire nei climi 'freddi'.
Quanto accennato in questa sezione si ricollega strettamente alla casistica
dei 'continenti perduti', che sarà presentata in qualche dettaglio nel Cap.
8 di questa medesima I parte.
(1) Il gesuita Wilhelm Schmidt, direttore dell'Istituto Etnologico di
Vienna, è stato autore del più monumentale compendio di storia delle
religioni 'primitive' (Der Ursprung der Gottesidee, 12 voll. pubblicati
successivamente dalla Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung di Münster negli
anni Venti e Trenta del secolo XX). Quest'opera eccellente e veramente
enciclopedica fu fonte di informazione principale, sull'argomento delle
religioni dei selvaggi, anche di Mircea Eliade. Per quel che riguarda questo
scritto, di riferimento pertinente sono i voll. I - VI.
(2) Ester Panetta, I pigmei, Guanda, Roma, 1959.
(3) John Baker, Race, cit.
(4) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit, vol. IV.
(5) Marion Walsham-Howe, The mountain bushmen of Basutoland, van Schaik,
Pretoria, 1962.
(6) Willem H. I. Bleek, On resemblances in bushman and australian mythology,
rivista "The Cape monthly magazine" (Kaapstad), vol. VIII, gennaio-giugno
1874.
(7) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(8) Generalmente si vede scritto 'boomerang', in grafia americanese.
(9) Cfr. Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi,
Mediterranee, Roma, 1974 (originale 1967).
(10) Cfr. Mircea Eliade, Réligions australiennes, Payot, Paris, 1972.
(11) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. I.
(12) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. VI.
(13) Carleton Coon, Razas, cit.
(14) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. VI.
(15) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(16) Ester Panetta, Pigmei, cit.
(17) Sui pigmei africani, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. IV;
Ester Panetta, Pigmei, cit.
(18) Sui pigmei andamanesi, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit, vol. III.
Una mostra di oggetti andamanesi è stata tenuta a Dresda, 1990 - 1991, nella
cui guida (Lydia Icke-Schwalbe und Michael Günther, Andamanen und Nikobaren,
ein Kulturbid, LIT Verlag, Dresden, 1990) è data un'ottima messa a punto
storica su quelle isole e vi si troverà un'esauriente bibliografia.
(19) Sui semang, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III; Paul
Schebesta, Unter den Urwaldzwergen von Malaya, Brockhaus, Leipzig, 1927 -
non si saprà mai raccomandare abbastanza questo libro, che unisce uno stile
accattivante, e che si legge come un romanzo d'avventure, con un perfetto
rigore scientifico.
(20) Sui negrito, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(21) Ne parlano, ma senza entrare in dettagli, Wilhelm Schmidt, Ursprung,
cit., vol. III e anche John Baker, Race, cit.
(22) Carleton Coon, Razas, cit.
(23) Alfred Vogel, Papuasi e pigmei, Baldini e Castoldi, Milano, 1954.
(24) Jacques et Paule Villeminot, La Nouvelle Gyuinée, Gérard/Marabout,
Verviers, 1966.
(25) Paul Rivet, Origines, cit.
(26) Alfredo Jahn, Los aborígenes del occidente de Venezuela, Monte Avila,
Caracas (Venezuela), 1973 (originale 1927).
(27) Questa notizia, riportata dal quotidiano "La Esfera" (Caracas,
Venezuela) del 13 luglio 1943, è menzionata anche da Cesáreo de Armellada,
Como son los indios pemones de la Gran Sabana, Elite, Caracas (Venezuela),
1946.
(28) Un eccellente compendio di tutto quel che si sa su di questa strana
popolazione è quello di Gisela Völger, Die Tasmanier, Steiner, Wiesbaden,
1972. Molto meno utilizzabili sono le pubblicazioni australiane
sull'argomento (per esempio, N. J. B. Plomley, The tasmanian aborigines,
edizione dell'autore, Launceston [Tasmania], 1977).
(29) Carleton Coon, Storia, cit.
(30) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. I; un discreto libretto
riassuntivo è quello di Vittorio di Cesare, Gli aborigeni australiani,
Xenia, Milano, 1996.
(31) Carleton Coon, Razas, cit.
(32) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit, vol. II; Mireille Guyot, Les
mythes chez les selknam et les yaman de la Terre du Feu, Institut
d'Ethnologie, Paris, 1968; Martin Gusinde, Urmenschen in Feuerland, Zsolnay,
Berlin, 1946; Wilhelm Koppers, Unter Feuerland-Indianer, Strecker und
Schröder, Stuttgart, 1924; Armando Braun Meléndez, Pequeña historia
magallánica, cit. e Pequeña historia fueguina, Francisco de Aguirre, Buenos
Aires y Santiago, 1971 (originale 1939).
(33) Carleton Coon, Razas, cit.
(34) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. II.
(35) Un sunto di tutto quello che c'era da sapere fino a circa il 1930 -
cioé quasi tutto - su di queste genti è quello di Isaac Schapera, The
khoisan peoples of southern Africa, Routledge and Kegan Paul, London
(Inghilterra), 1930. Cfr. anche Martin Gusinde, Von gelben und schwarzen
Buschmännern, Akademische Druck, Graz, 1966. Qualche notizia addizionale che
si riferisce agli ultimissimi boscimani ancora vivi e riconoscibili, i !Kung
del Kalahari, è data da George Silberbauer, Hunter and habitat in the
central Kalahari desert, Cambridge University Press, Cambridge
(Inghilterra), 1981. Un'ottima selezione di pitture rupestri boscimanesche è
quella di Townley Johnson, Major rock paintings of southern Africa, David
Philip, Kaapstad, 1991.
(36) Carleton Coon, Razas, cit.; John Baker, Race, cit.
(37) Carleton Coon, Razas, cit.
(38) Fatto appreso dallo scrivente durante la sua presenza in Sud Africa,
fine degli anni Ottanta.
(39) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(40) Carleton Coon, Storia, cit.
(41) Della documentazione in riguardo è menzionata da Robert Gayre, The
origins of the zimbabwean civilization, Galaxie, Salisbury (Rhodesia), 1972.
(42) Notizie apprese dallo scrivente durante la sua presenza in Sud Africa,
fine degli anni Ottanta.
(43) John Baker, Race, cit., dedica diverso spazio allo strandlooper.
Secondo l'autore sudafricano George Laing (The relationship between Boskop,
Bushman and Negro elements in the formation of the native races of South
Africa, South African journal of science, vol. XXIII, 1926), lo strandlooper
sarebbe il risultato del meticciato fra un 'uomo scimmia' a lui preesistente
(l''uomo di Boskop') ed elementi boscimaneschi.
(44) In riguardo, soprattutto ma non esclusivamente per quel che riguarda
l'Africa subsahariana, di utile lettura è John Baker, Race, cit.
(45) Julius Evola dedicò un paio di pagine alle civiltà americane nella sua
Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1969 (originale 1932).
(46) Sull'isola di Pascua, cfr., per esempio, Albert Métraux, La
meravigliosa isola di Pasqua, Mondadori, Milano, 1971; Andrea Drusini, Rapa
Nui l'ultima terra, Jaca Book, Milano, 1994.
(47) Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit.
(48) Cfr. Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit.; John Baker,
Race, cit.; Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(49) John Baker, Race, cit.; Rémy et Bernadette Chauvin, Monde, cit.
(50) Cfr, Carleton Coon, Storia, cit.
(51) Cfr. Myra Shackley, Neanderthal man, Duckworth, London (Inghilterra).
1980.
(52) Roberto Fondi sul settimanale "Lo Stato" (Milano) del 27 gennaio 1998.
(53) Per una visione d'insieme su questo argomento, validi sono: Bernard
Heuvelmans, Sur la piste des bêtes ignorées, Plon, Paris, 1955; Christian
Filagrossi, Creature impossibili, Armenia, Milano, 2000.
(54) Sullo yeti cfr. anche un divertente saggio di Attilio Mordini, che
vorrebbe 'inquadrarlo' in uno schema biblico (Il mito dello yeti, Il Falco,
Milano, 1977).
(55) Cfr. Eric Norman, The abominable snowmwn, Award, New York (America),
1969; Warren Smith, Strange abominable snowmen, Popular library, New York
(America), 1970; Don Hunter and René Dahinten, Sasquatch, The new american
library, Toronto (Canada), 1975, dove sono riprodotte anche delle
interessanti immagini, mai dimostrate false.
(56) Cfr. Peter Kolosimo (pseudonimo di Pietro Colosimo), Fiori di Luna,
Sugar, Milano, 1979.
(57) Cfr. il quotidiano "Il Giornale" (Milano) dell'11 ottobre 2003.
(58) Alexander von Humboldt, Viaje a las regiones equinocciales del Nuevo
Continente (5 voll.), edizione spagnola del Ministerio de Educación, Caracas
(Venezuela), 1956 (originale in francese 1816 - 1831). Questa fu poi appresa
dallo scrivente, indipendentemente ma nella stessa zona, in occasione di una
sua permanenza da quelle parti verso la fine degli anni Settanta.
(59) Lo scrivente ebbe modo di visitare la zona di Perijá verso il 1980.
Questa nozione è comunque riportata, sia pure brevemente, dal missionario
francescano Félix de Vegamián, Los Ángeles de El Tucuco, 1945 - 1970,
edizione dei Padri Cappuccini, Maracaibo (Venezuela), 1972.
(60) Hans F. K. Günther, Rassenkunde Europas, Lehmann, München, 1926
(edizione italiana Tipologia razziale dell'Europa, Ghenos, Ferrara, 2003)
suggerisce che fra le classi criminali europee affiorino occasionalmente
tratti neandertaloidi. Questo, però, è più che altro ipotetico.
(61) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(62) In riguardo, si consulti John Baker, Race, cit.
(63) Questa notizia è stata diffusa dalla stampa quotidiana di giugno e di
luglio 2003.
(64) Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit.; ma cfr. anche
Christian Filagrossi, Creature, cit.
(65) In riguardo, di utile consulta può essere l'opuscolo di
SilvanoLorenzoni, Religiosità animale, Primordia, Milano, 2003.
(66) Otto Weininger, Geschlecht und Charakter, Baumüller, Wien und Leipzig,
1903.
(67) Cfr. anche Julius Evola, Metafisica del sesso, Mediterranee, Roma,
1969.
(68) Queste idee di Otto Weininger sono state messe a profitto anche nel
campo fantascientifico, da Hanns Heinz Ewers, Der Tod des Barons Jesus Maria
von Friedel, nella collezione Die Besessenen, Georg Müller, München, 1919.
(69) Rémy et Bernadette Chauvin, Monde animal, cit.; Rémy Chauvin, La
biologie de l'esprit, Éditions du Rocher, Monaco, 1990; Rémy Chauvin, Les
sociétés animales, Presses Universitaires de France, Paris, 1982.
(70) Eugène Marais, Burgers van die berge, riproposto in Leon Rousseau (a
cura di), Die beste van Eugène Marais, Rubicon Pers, Kaapstad, 1986.
(71) George Stow, The native races of South Africa, Swan, Sonnenschein &
Co., London (Inghilterra), 1905.
(72) Cfr. un interessante arrticolo sul quotidiano "Die Welt" (Frankfurt am
Main) del 23 agosto 2002.
(73) Cfr. l'opera complessiva di Rémy Chauvin e, in particolare, i libri
citati a nota (69).
(74) Cfr. l'opera complessiva di Rémy Chauvin e, in particolare, Il mondo
delle formiche, Feltrinelli, Milano, 1976 (originale 1969).
(75) La notizia è riportata da Giovanni Monastra, Le origini della vita, Il
Cerchio, Rimini, 2000.
(76) Heinrich Driesmans, Der Mensch der Urzeit, Strecker und Schröder,
Stuttgart, 1923.
CAP. 3 CENNI STORICI
3.0 Introduzione
In questo capitolo si darà una panoramica dell'andamento storico dell'idea
del selvaggio come decaduto e non come 'primitivo'. Anche se il primo a
parlare di questa possibilità in modo esplicito fu Joseph de Maistre, c'è da
credere che si trattasse di una nozione discretamente diffusa fino a un paio
di secoli fa - non a caso lo stesso Platone vedeva nelle scimmie degli umani
decaduti in ragione dell'essere venuta meno in loro la 'scintilla sacra';
mentre fra i primi e più seri etologi (1) insorse in modo del tutto naturale
la domanda se lo scimpanzé non fosse forse un umano decaduto. Quindi, l'idea
della decadenza dell'umanità fino alla bestialità, attraverso il tramite del
selvaggio, non ha alcunché di peregrino o di strano e fu sostenuta anche da
biologi affermati fino agli inizi del secolo XX. Negli ultimio cinquant'anni
è invece prevalso, in modo definitivo, il dogma evoluzionista, secondo il
quale l'umano non poteva provenire se non 'evoluzionisticamente' da
antropoidi pitecoidi non particolarmente antichi. Nel momento della stesura
di queste righe, il dogma afferma che l'Homo sapiens ha un'origine africana,
e le scoperte paleontologiche che mettono allo scoperto reperti umani sempre
più antichi e nelle più disparate parti del mondo, vengono cavillosamente
incastrati in quel dogma. Sulla fisima evoluzionistica si riverrà in
dettaglio al Cap. 4 di questa I parte.
Sia qui ricordato che l'idea involuzionistica - indipendentemente o magari a
dispetto delle mode culturali imperanti - fu fatta propria da alcuni validi
letterati. Uno, in particolare, fu il nostro Emilio Salgari, nel quale è il
caso di vedere un genuino anti-Rousseau. (Ci si ricorderà come Jean-Jacques
Rousseau fu l'inventore della barzelletta del 'buon selvaggio', che tanta
fortuna ebbe dopo in un mondo ideologicamente sbilanciato.) In Salgari il
selvaggio è spesso presentato come un esser degradato e maledetto, che non
rispecchia alcunché di positivo ma che sembra fare da condensatore per tutte
quelle qualità negative che sono appannaggio delle classi criminali nelle
società civili (2). E uno scrittore iberoamericano parecchio discutibile, ma
che occasionalmente sfornò qualche racconto fantastico interessante, Jorge
Luis Borges, nel suo El informe de Brodie (3) ci descrive un raggruppamento
umano completamente degenerato, arrivato sul bordo dell'animalità, sul cui
pantheon troneggiava un non meglio identificato 'dio' al quale ci si
riferiva chiamandolo 'Sterco' (qui può darsi che il Borges avesse preso lo
spunto da qualche conoscenza sui tasmaniani o gli abitanti delle Nicobare,
fra i quali gli appellativi di 'Sterco' e 'Vomito' erano nomi propri
correnti).
3.1 Il selvaggio come decaduto: da Joseph de Maistre a Julis Evola
Joseph de Maistre (4) parla del selvaggio come di un "homme détaché du grand
arbre de la civilisation par une prévarication [uomo staccato dal grande
albero della civiltà da una prevaricazione]". Poi, usando un linguaggio
consono con la sua formale adesione all'immaginario monoteista cattolico,
egli procede a vedere in questa 'prevaricazione' una specie di 'peccato
originale di secondo grado' dovuto, caso per caso, a governanti che, avendo
alterato in sé stessi il principio etico, hanno trasmesso un'anatema ai loro
sudditi condannandoli a divenire selvaggi. Né il de Maistre manca di fare il
confronto fra il selvaggio e quel tipo umano che, all'interno delle società
civili, è il criminale. - E, più avanti, egli afferma che anche le lingue
dei selvaggi non devono essere viste come degli embrioni linguistici, ma
piuttosto come dei rottami ("débris de langues antiques ruinées ... et
dégradées comme les hommes qui les parlent... [rottami di lingue antiche,
rovinate e degradate come gli uomini che le parlano ...]). Ci informa anche
che i gesuiti francesi avrebbero messo insieme un'immensa documentazione
sulle lingue dei selvaggi (presumibilmente, in massima parte proveniente
dall'America del Nord e dai Mari del Sud), andata perduta durante la
Rivoluzione (5).
Va ricordato che Joseph de Maistre, pure massone, era di formazione
gesuitica e che quindi, probabilmente, sapesse perfettamente di cosa stesse
parlando quando si riferiva ai gesuiti. e non a caso, in ambienti gesuitici
(ai quali apparteneva anche lo spesso citato Wilhelm Schmidt), la
possibilità dell'opzione involutiva per il selvaggio rimase palesemente
aperta fino a tempi molto recenti. Vittorio Marcozzi, gesuita, ne parla
nella sua opera spesso citata (6), per concludere, cautamente, che l'ipotesi
evolutiva sembrerebbe essere la più probabile. Ester Panetta (7) cita un non
meglio identificato 'Padre Lafiteau' che sarebbe stato quello che, in modo
'definitivo', avrebbe sancito la parola d'ordine secondo la quale i selvaggi
(nella maggior parte dei casi) sarebbero non dei degenerati ma dei
primitivi: questo sembrerebbe indicare che la prima possibilità era tenuta
come valida fino a tempi molto recenti, almeno in certi casi, negli ambienti
gesuitici.
Ma ancora nel Settecento (pur senza alcun riferimento a 'primitivi'), il
grande biologo Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, aveva affermato che
la 'trasformazione' di una specie in un'altra può avvenire solo attraverso
degenerazione di specie superiori in inferiori; e in quei medesimi tempi non
mancarono gli scienziati che vedevano nel negro una forma involutiva
risultante dal meticciato fra l'uomo vero (quello europide) e la scimmia
(8). - Ai primi dell'Ottocento il celeberrimo esploratore Alexander von
Humboldt (9) esprimeva l'opinione che gli indigeni delle zone rivierache
dell'Orinoco, quali egli li aveva incontrati, fossero una "razza
degenerata"; e a Humboldt si rifà esplicitamente James Chrchward (10),
teorico del continente perduto di Mu, quando afferma che il selvaggio è un
civile decaduto (e quindi, come si è già detto, non un preistorico ma un
post-storico), come conseguenza di una qualche catastrofe naturale ("solo
chi non conosce i selvaggi può illudersi che la civiltà sia nata dalla
barbarie ... l'uomo allo 'stato di natura' è un condannato a morte"). - Uno
dei più validi antropologi dell'anteguerra, Georges Montandon (11), si
dichiarava sicuro che i pigmei fossero un ramo aberrante staccatosi dal
tronco umano normale. - E anche Oswald Spengler (12) asseriva che i
cosiddetti 'primitivi' non fossero altro resti di materiale vivente, avanzi
di forme un tempo animate, scorie. Egli però non sviluppò l'argomento.
Julius Evola aveva fatta sua l'idea involuzionistica, che egli sviluppò però
con un certo dettaglio solo per il lato riguardante la psicopatologia e la
qualità involuta del selvaggio dal punto di vista esistenziale e religioso -
su di questo ci si dilungherà nel Cap. 4 della II parte (13). L'argomento,
in temini più generali, fu toccato negli anni Venti, non da Evola
direttamente ma da un suo collaboratore che, firmandosi con lo pseudonimo di
Arvo, che scrisse in riguardo nell'opera collettiva Introduzione alla magia
quale scienza dell'io (14). Arvo affronta anch'egli l'argomento dal punto di
vista metafisico e si dilunga a mettere in relazione la casistica
dell'involuzione con la dottrina dell'uomo-entelechia' - l'uomo 'fuori dal
tempo' - sviluppata da Edgar Dacqué e sulla quale ci si addentrerà nel Cap.
7 di questa I parte. Sia qui menzionata una calzante osservazione dell'Arvo,
secondo la quale, a livello puramente empirico, ogni fatto addotto a
sostegno dell'evoluzionismo può essere contemporaneamente addotto a favore
di una tesi involuzionistica: quando, ipoteticamente, "si fosse anche giunti
a constatare una continuità di forme e di anelli permettenti di passare da
una specie a un'altra, sino all'uomo, si sarebbe semplicemente stabilita una
linea che nessuno ci dice in che senso sia stata percorsa". - Quanto al
fatto che "le tracce fossili dell'uomo sembrano essere più recenti", esso
può, secondo Arvo, ammettere ogni tipo di spiegazioni. Ma non è vero che le
tracce fossili umane siano più recenti di quelle di ogni altro tipo di
animale o vegetale - ci si riferisca al Cap. 4 di questa I parte.
3.2 La decadenza come problematica della storia comparata delle religioni
Si vuole concludere questo capitolo dando un'idea dell'aspetto che la
problematica evoluzione-involuzione ha acquistato nel modo in cui si è
messa a fuoco la storia delle religioni nell'universo accademico (15). Il
punto di vista 'evolutivo' si immaginava i selvaggi come degli esseri umani
molto vicini all''inizio assoluto', quando l'uomo sarebbe emerso - more
darwiniano - dall'animalità; punto di vista che fu, e ancora è, sostenuto
dall'establishment 'scientifico' ufficiale, quello che si è impossessato
delle cattedre universitarie e dei mezzi di comunicazione, al punto di avere
scavalcato quai interamente, in quegli ambienti, il punto di vista opposto.
La Weltanschauung 'involuzionista'/decadentista si rifaceva invece all''idea
del 'buon selvaggio' di Jean-Jacques Rousseau e, nel contempo, anche alla
teologia monoteista rappresentata filosoficamente anche da Wilhelm Schmidt:
nel selvaggio si vedeva l'essere più o meno 'perfetto', dal punto di vista
morale o anche da quello religioso, mentre dalle religioni dei selvaggi
sarebbero discese, per involuzione, le religioni storiche pre- o
extra-monoteiste.
Queste due ideologie, in apparenza diametralmente opposte, hanno invece due
punti essenziali in comune: (a) sono ossessionate dalla nozione
dell'origine' e dell''inizio' dell'idea religiosa; (b) questo origine/inizio
deve essere stato 'semplice'. Per gli evoluzionisti, questa semplicità
doveva riflettere un comportamento e un modo di 'vedere' il mondo molto
vicino a quello degli animali; per i decadentisti essa doveva rappresentare
una specie di pienezza e di perfezione metafisica. Quindi, ambedue queste
ideologie soggiacciono allo Zeitgeist moderno, secondo il quale tutto deve
avere avuto, per forza, un 'inizio' - e avrà, prsumibilmente, un
'compimento'.
È chiaro che al filone decadentista appartiene anche Wilhelm Schmidt (16); e
su Wilhelm Schmidt vale la pena di spendere due parole. Non c'è dubbio che
il suo spesso citato Ursprung der Gottesidee sia il compendio migliore che
mai sia esistito e che ancora esista sull'argomento delle religioni dei
selvaggi (17). Lo Schmidt approda a un concetto del tutto generale, valido
per tutti i selvaggi soprattutto se di livello assolutamente infimo, che è
quello che lui chiama Urmonotheismus [monoteismo primordiale], che poi
Mircea Eliade ridimensionò nel suo deus otiosus, che sarà messo a fuoco
sotto una luce del tutto diversa nel Cap. 2 della II parte. Avendo
individuato, attraverso uno studio dettagliato, vasto ed esattissimo, questo
fenomeno culturale, lo Schmidt procede a 'incastrarlo' dentro a uno schema
concettuale monoteista, biblio-talmudico, immaginandosi i selvaggi come se
non identici almeno molto vicini a quello che poteva essere l''uomo
primordaiale' - 'Adamo', tanto per intenderci -, appena spedito fuori dal
cosiddetto 'paradiso terrestre'. Il (presunto) monoteismo delle popolazioni
selvagge verrebbe a essere un ancora vivido ricordo dei tempi (edenici)
quando 'dio' poteva essere visto da vicino.
Questo lo descriviamo qui per obbligo di completezza e non solo come
curiosità, per fare vedere a quali malate fantasmagorie possa portare una
forma mentis monoteista anche in persone eccezionalmente intelligenti. Le
conseguenze ultime vengono raggiunte invece da pazzi scatenati: il
demonologo Egon von Petersdorff (18), che cita occasionalmente Wilhelm
Schmidt, afferma che dei detti dei filosofi greci o degli autori classici in
qualche modo concordano con quelli dei cosiddetti 'padri della chiesa',
questo è dovuto a che i primi usufruivano ancora, sia pur per vie traverse,
di ricordi che risalivano ai tempi 'edenici'. In altre parole, Platone è
debitore intellettuale ai cannibali dell'Oceano Pacifico o ai boscimani del
Kalahari. - Un ordine analogo di idee era stato espresso dal filosofo
Friedrich Wilhelm Schelling, che nelle sue due Einleitungen - an der
Philosophie der Mithologie e an der Philosophie der Erlösung - prospettava
una 'rivelazione primordiale', affievolitasi poi con il tempo, con
conseguente necessità di una 'redenzione', realizzatasi attraverso la venuta
di Cristo, per rimettere d'accordo 'dio' e l'uomo. - Lo Schmidt, nella sua
Ursprung, non cita Schelling.
(1) Wilhelm Bölsche, Tierseele und Menschenseele, Francksche
Verlagshandlung, Stuttgart, 1924.
(2) Cfr., in particolare, i romanzi I cannibali dell'Oceano Pacifico e I
prigionieri delle pampas.
(3) Jorge Luis Borges, El informe de Brodie, Emecé, Buenos Aires
(Argentina), 1970.
(4) Joseph de Maistre, Les soirées de Saint-Pétersbourg, Éditions de la
Maisnie, Paris, 1980 (originale 1809).
(5) Sempre secondo il de Maistre, di questa documentazione sarebbe esistito
un sunto (non particolarmente ben fatto) in lingua italiana (Memorie
cattoliche, 3 voll.), che già agli inizi dell'Ottocento era extrêmement rare
[estremamente raro].
(6) Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(7) Ester Panetta, Pigmei, cit.
(8) Cfr. Giuseppe Sermonti, Luna, cit.
(9) Alexander von Humboldt, Viaje, cit.
(10) James Churchward, Mu, le continent perdu, J'ai lu, Paris, 1969.
(11) Georges Montandon, La race, les races, Plon, Paris, 1933.
(12) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, Il
Borghese, Milano, 1970 (originale 1931).
(13) Julius Evola, Sintesi, cit.; L'arco e la clava, Scheiwiller, Milano,
1971; Rivolta, cit.; ecc.
(14) Julius Evola (a cura di), AA.VV., Intoduzione alla magia quale scienza
dell'io (4 voll.), I Dioscuri, Genova, 1987 (originale 1927 - 1929); vol.
III.
(15) Questo argomento è stato riassunto in modo perfetto da Mircea Eliade
nell'introduzione alla sua opera Réligions australiennes, cit., da dove, in
buona parte, sarà mutuato l'esposto che segue in questa sezione.
(16) Wilhelm Schmidt rende esplicite le sue idee teologico-filosofiche sulla
religione dei selvaggi nella sua Ursprung, cit., voll. I e VI.
(17) Chi conosca discretamente bene l'opera complessiva di Mircea Eliade (e,
in particolare, il suo Trattato di storia delle religioni, Boringhieri,
Torino, 1976 [originale 1948]), si sarà acorto che l'Ursprung di Wilhelm
Schmidt è la sua principale fonte di informazione.
(18) Egon von Petersdorff, Daemonen, Hexen, Spritisten, Credo, Wiesbaden,
1960.
CAP. 4. LA FISIMA EVOLUZIONISTICA E LA POSIZIONE DELL'UOMO NEL COSMO
4.0 Introduzione
In questo capitolo: (a) si darà un breve esposto della fisima
evoluzionistica (cioé, a ogni effetto pratico, darwinistica, perché il
darwinismo, identificato con l'evoluzionismo, è divenuto uno dei dogmi
portanti dei nostri tempi [1]) mettendone a nudo le fondamenta concettuali e
poi indicando la sua infondatezza scientifica; (b) si indicherà la
collocazione obiettiva, spaziale e temporale, dell'uomo nel Cosmo, in base
ai ritrovati obiettivi non setacciati dall'establishment 'scientifico'
contemporaneo.
4.1 Il darwinismo (2) e sua radice biblio-talmudica
All'interno di un tempo immaginato come una 'quarta dimensione'
unidirezionale dello spazio - sulla valutazione del tempo si ritornerà al
Cap. 5 di questa I parte -, il paradigma 'scientifico' evoluzionista ci
presenta ogni individuo e specie vivente come facente parte di una catena
progredente nel medesimo, costituita da presenze derivanti da quelle che le
hanno precedute per filiazione diretta. Le variazioni riscontrabili nella
storia (o presunta tale) delle specie, obiettivata dal record fossile, sono
attribuite a cambiamenti, divenuti ereditari, intervenuti a un determinato
momento e che poi hanno improntato di sé tutta la discendenza. Il darwinismo
è quella varietà di evoluzionismo che propone come meccanismo causante della
perpetuazione delle variazioni ereditarie la cosiddetta selezione naturale,
per cui quando (per qualsiasi ragione) in qualche individuo o gruppo di
individui vengono a manifestarsi delle caratteristiche che lo rendono più
'adatto' all'ambiente fisico e/o biologico in cui si viene a trovare, la sua
discendenza tenderà a essere più numerosa e, alla lunga, soppianterà
distruttivamente quella di coloro che tali caratteristiche non hanno, dando
così origine a una nuova forma biologica - a una nuova 'specie'. Adesso come
adesso, darwinismo è divenuto a ogni effetto pratico sinonimo di
evoluzionismo, in quanto questa confusione semantica è favorita
dall'establishment 'scientifico' per il quale il darwinismo è divenuto
l'unico paradigma evolutivo accettabile. Questo, in quanto esso presenta
lameno tre caratteristiche assolutamente congruenti con lo Zeitgeist:
(a) Esso soddisfa la Weltanschauung contemporanea che vuole che anche la
natura funzioni come una banca - con criteri da usuraio orientati al
profitto. Darwin non fu altro che un usuraio con pretese di 'biologo'.
(b) Essa si accorda con il paradigma politico contemporaneo, che vuole che
ogni cosa superiore abbia la sua scaturigine in qualcosa di inferiore -
attraverso 'miglioramento', educazione o altra cosa - ma mai viceversa.
(c) Essa si accomoda alla visione segmentaria del tempo, per cui la vita in
generale e quella umana in particolare, deve avere avuto un inizio di
qualche genere ('creazione') e deve poi avere progredito un poco alla volta,
tendendo a una qualche 'pienezza' (salvo poi magari venirsi a trovare di
fronte a qualche catastrofica troncatura).
Come si vede, il darwinismo è fatto su misura per andare d'accordo con il
paradigma biblio-talmudico che regge i nostri tempi (3); e questo spiega il
suo successo. Quale potesse essere il deus ex machina che diede origine a
quei caratteri che avrebbero dato a certuni il vantaggio su altri agli scopi
della cosiddetta selezione naturale, fu un mistero assoluto dalla
pubbblicazione dell'opera di Darwin (verso la metà dell'Ottocento) fino ai
primi del Novecento, quando si volle vederlo nelle cosiddette mutazioni.
Anche la teoria mutazionistica dimostrò ben presto delle insormontabili
limitazioni; e difatti fu (definitivamente) accantonata, dal punto di vista
scientifico, già nel 1980 (4) - ma i darwinisti, cioé tutti i tromboni
dell'establishment 'scientifico' ufficiale, non se ne diedero mai per intesi
né è probabile che abbiano intenzione di farlo; forse perché, come pontificò
uno di loro (5), qualsiasi alternativa è inimmaginabile.
Che poi evoluzionismo (non necessariamente darwinismo) e biblio-talmudismo
siano fatti l'uno per l'altro, sembra essere confermato da alcuni studiosi
estremamente seri dal punto di vista scientifico ma che, quando si viene a
interpretazioni, si lasciano trascinare anch'essi dal loro monoteismo. Rémy
Chauvin (6), in un suo libro che non si potrà mai raccomandare abbastanza,
pur dopo avere dimostrato che lo sviluppo ('evoluzione') delle forme
biologiche attraverso gli eoni geologici spesso e volentieri va contro ogni
criterio di 'selezione naturale', non può se non arrivare alla conclusione
che, come monoteista, egli deve essere evoluzionista perché è l'unica
possibilità scientificamente accettabile attraverso la quale, dopo
l''origine' della vita (cioé: la 'creazione'), si potrebbe arrivare alla
'corona del creato', l'Homo sapiens, raggiunto il quale l'evoluzione si
sarebbe fermata perché si sarebbe arrivati alla 'pienezza dei tempi'. Idee
del genere erano state avanzate da un pregevole biologo italiano, Piero
Leonardi (7), già mezzo secolo addietro; e un'interpretazione 'evolutiva'
della segmentarietà del tempo nel mondo biologico si sta facendo sempre più
strada in ambienti monoteisti. Quanto all'avversione per l'idea
evoluzionista manifestata in ceri ambienti bibliolatri fondamentalisti,
sopratturro di lingua americana (perchè essa attenterebbe all'idea della
crezione ex nihilo dell'uomo da parte di un ipotetico 'dio' semitico), è una
fenomenologia tipicamente monoteista: solo i monoteisti sono stati,
attraverso la storia, l'uno alla gola dell'altro per ragioni 'religiose'
("il mio dio è migliore del tuo").
Quanto al cosiddetto 'darwinismo sociale, per cui la 'corona del creato'
sarebbe il manipolatore finanziario (che è il più adatto a fare carriera in
una società ebraizzata come quella in cui ci tocca adesso vivere), è una
conseguenza necessaria della tesi biologica darvinista, che sfocia
obbligatoriamente nel dovere vedere nel parassita la specie trionfante del
mondo futuro. Questo, ovviamente, è assurdo - ma tutto ciò che scaturisce
dal biblio-talmudismo è assurdo.
4.2 Gli argomenti statistici
Si è già detto come il darwinismo si trovi a corto di 'meccanismi' per
giustificare le variazioni genetiche alle quali poi si possa afferrare la
'selezione naturale'; ma esso da fiducia ancora alle mutazioni perché "ogni
altra soluzione è inimmaginabile". Gli argomenti più validi contro il
processo di mutazione+selezione (neodarwinismo), e che lo rendono del tutto
assurdo, sono di tipo statistico e provengono dal calcolo fatto, usando
tecniche matematiche standard da tutti accettate, della probabilità che
certi processi molecolari (processi portanti della biochimica e quindi della
vita, secondo ogni accettata teoria standard), abbiano potuto avere luogo
nei tempi 'disponibili'. Questo era già stato notato da uno dei principali
tromboni del neodarwinismo, il biblio-marxista Jacques Monod, il quale era
però stato almeno sufficientemente onesto da portare fino in fondo le sue
argomentazioni: la probabilità che la vita si potesse sviluppare era
talmente bassa da essere in pratica uguale a zero, e quindi nella vita si
deve vedere un genuino 'miracolo statistico' (8). Un'indicazione degli
ordini di grandezza in questione è data nella bibliografia (9); e uno studio
dettagliatissimo in riguardo è stato fatto dal già citato Ferdinand Schmidt
(10). (Adesso gli 'esperti' hanno ecogitato un nuovo approccio al problema:
essi mettono indietro l''età dell'universo' ogni volta di più in modo che il
miracolo di Jacques Monod non sia più tanto miracoloso [11].)
Dopo avere dimostrato l'impossibilità dell'evoluzione stereotipa, secondo le
normalmente accettate leggi molecolari e il calcolo delle probabilità,
Ferdinand Schmidt propone un altro meccanismo per darne ragione. Egli lancia
la teoria dell'evoluzione cibernetica, secondo la quale gli esseri viventi
funzionano come calcolatori cibernetici, cioé calcolatori elettronici capaci
di imparare e di modificare la propria programmazione da soli in base
all'esperienza: e siccome le leggi della cibernetica sono leggi logiche e la
natura funziona logicamente (usando la logica aristotelica), questo gli
sembra la cosa più naturale e accettabile. Non a caso gli studiosi di
cibernetica negano che il 'calcolatore pensante' sia un'utopia; e sotto le
medesime condizioni ambientali un calcolatore cibernetico può trovare
molteplici soluzioni adattative diverse - donde una proliferazione
divergente delle specie. Ma anche Ferdinand Schmidt deve ammettere che il
calcolatore cibernetico non può evocare sé stesso dal nulla: quindi, per
l'inizio della vita, anche lui non può fare a meno di invocare quel
'miracolo statistico' già indicato da Jacques Monod. Inoltre, la teoria
dell'evoluzione cibernetica indica che l'evoluzione, una volta innescata,
deve procedere sempre più in fretta, fino a raggiungere un ritmo
allucinante - anche i progressi tecnici moderni sono, secondo questo
approccio, dei fenomeni evolutivi; e questo fa presagire il disastro.
Siamo dunque di nuovo davanti a un tempo segmentario: creazione ('miracolo
statistico') seguita necessariamente da apocalisse, nel miglior stile
monoteista. Ferdinand Schmidt da la mano a un altro catastrofista, Theo
Löbsack (12), secondo il quale un'evoluzione fuori controllo dell'encefalo
porterà necessariamente l'uomo all'estinzione entro pochi secoli. Nessun
evoluzionista trova un'uscita fuori dal tempo segmentario: ognuno di loro è,
in fondo e contrariamente a ogni apparenza, un monoteista riciclato.
Evoluzionismo e 'creazionismo' sono due pagliacciate che l'una vale l'altra.
4.3 Antichità vera e diffusione dell'uomo
premesso quanto sopra, non sorprende che tutti quei pretesi ritrovati
paleontologici che, evoluzionisticamente, dovevano essere gli 'anelli
mancanti' fra l'uomo e i suoi scimmieschi antenati si siano dimostrati dei
falsi (13). Provvisoramente, il nuovo dogma 'evoluzionistico-creazionista'
proposto dall'establishment, è quello dell'origine unitaria africana
dell'Homo sapiens, antico ma non troppo, dogma al quale, fino a che non
subentrino cambiamenti, si tenta di accomodare ogni nuovo ritrovato
paleontologico.
Viene invece soppressa quell'evidenza che indica che l'uomo è antichissimo,
anteriore e poi contemporaneo non solo alla scimmia ma anche al dinosauro e
all'insetto (14): tracce umane - e non solo in senso lato, ma di umanità
civile - sono rintracciabili fino nel Precambriano (anche se è difficile
immaginare quanto simile quell''umanità' potesse essere, somaticamente e
psicologicamente, all'uomo civile contemporaneo [15]).
Quando l'uomo venga immaginato come un essere di immemorabile antichità,
vengono a cadere anche quelle barriere concettuali che riguardano le
modalità di popolamento, da parte di svariate razze, delle diverse parti
della Terra quale essa, adesso, geograficamente è (gli amerindi 'devono'
essere di origine siberiana, i tasmaniani 'devono' essere di origine
australiana, perché qualsiasi alternativa è 'inimmaginabile'). A parte il
fatto che le diverse popolazioni avrebbero potuto, nel passato, usufruire di
mezzi di locomozione di cui non hanno dopo usufruito, rimane che la Terra
non ha sempre avuto la fisionomia topografica che adesso ha (da quando la
scienza ufficiale, dopo notevoli reticenze, ha fatto sua la teoria della
deriva dei continenti di Alfred Wegener, questa possibilità viene ammessa
anche a livello di establishment). E se l'uomo è sempre esistito, anche la
distribuzione dei tipi umani ebbe delle possibilità di manifestazione adesso
precluse o comunque diverse da qunto adesso possa essere il caso.
Queste possibilità sono tipificate nel più interessante dei modi dalla
popolazione aborigena di quello che - più ancora dell'Australia - è il più
isolato di tutti i continenti, l'America del Sud. Lì sia i reperti
archeologici (Brasile meridionale e zona andina) che le caratteristiche
somatiche delle popolazioni più australi dimostrano notevoli affinità con le
genti australoidi e papuasiche; mentre in tutti gli amerindi si
riscontrerebbero caratteristiche ainu (gli ainu dovevano essere in tempi
remoti un tipo umano molto diffuso, se ne parlerà con qualche dettaglio nel
Cap. 2 della III parte) (16). Già Paul Rivet (17) aveva fatto delle
osservazioni del tutto pertinenti e si era anche reso conto di interesanti
coincidenze lessicali fra la lingua dei fueghini ona e dei patagoni
tehuelche e le lingue australiane (18). Questi interessantissimi fatti egli
li attribuiva a un'immigrazione australiana, alla svolta del VI - V
millennio a.C., avvenuta via mare bordeggiando l'Antartide, e suggeriva
quindi che sotto i ghiacci della banchisa antartica potesse esserci un ricco
bottino archeologico (19).
Le ipotesi del Rivet non possono essere escluse, ma potrebbero divenire
superflue quando l'impostazione del problema venga cambiata in ragione della
possibilità di un prolungamento indefinito della presenza umana sulla Terra.
In particolare, una rivalutazione delle idee di Ameghino aprirebbe la
possibilità di un'origine almeno parzialmente sud-americana dell'umanità
australoide.
(1) Assieme all'einsteinismo e all''olocausto'.
(2) Gli esposti a livello divulgativo e non divulgativo della teoria
darwiniana sono innumerevoli - molte meno sono invece le opere critiche,
delle quali qui diamo un breve florilegio. Giuseppe Sermonti e Roberto
Fondi, Dopo Darwin, Rusconi, Milano, 1980 e Roberto Fondi, Organicismo ed
evoluzionismo, Il Corallo/Il Settimo Sigillo, Roma, 1984, sono dei classici
in argomento, almeno in lingua italiana. Giuseppe Sermonti, Il crepuscolo
dello scientismo, Rusconi, Milano, 1971, anche se è un testo di gnoseologia
generale, contiene anche delle valide critiche al darwinismo. Di ottimo
riferimento Giovanni Monastra, Origini, cit., Rutilio Sermonti, Rapporto
sull'evoluzione, Il Cinabro Catania, 1985 e Rémy Chauvin, Biologie, cit.
L'agile libretto, in lingua americana, di Francis Hitchings, The neck of the
giraffe, Pan London (Inghilterra), 1982, da una sequenza di spezzoni di
informazione sui punti principali dove il darwinismo da origine a
contraddizioni.
(3) Cfr. Silvano Lorenzoni, Origine del monoteismo e sua diffusione in
Europa, Carpe Librum, Nove, 2001.
(4) Cfr. Rutilio Sermonti, Rapporto, cit.
(5) Jacques Monod, citato da Ferdinand Schmidt, Grundlagen der kybernetische
Evolution, Goecke und Evers, Krefeld, 1985.
(6) Rémy Chauvin, Biologie, cit.; e anche Joachim Illies, Schöpfung oder
Evolution, Interform, Zürich, 1980.
(7) Piero Leonardi, L'evoluzione dei viventi, Morcelliana, Brescia, 1950.
(8) Jacques Monod, Le hasard et la nécessité, Seuil, Paris, 1970.
(9) Cfr. nota (2) qui sopra.
(10) Ferdinand Schmidt, Grundlagen, cit.
(11) Cfr. Silvano Lorenzoni, Sottomondo, sovramondo e centralità umana,
Congresso Occidentale, Trieste, 2003.
(12) Theo Löbsack, Die letzten Jahre der Menschheit, Bertelsmann, München,
1983.
(13) Un istruttivo elenco di questi falsi è dato da Rutilio Sermonti,
Rapporto, cit.
(14) Cfr. Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit., dove, fra
l'altro, c'è un vasto esposto dei lavori di Florentino Ameghino. Giuseppe
Sermonti, Luna, cit., cita Max Westerhofer (Die Grundlagen meiner Theorie
von Eigenweg des Menschen, Winter, Heidelberg, 1948) secondo il quale l'uomo
è il più antico dei mammiferi e quello che meno si è allontanato dal suo
ipotetico prototipo.
(15) In riguardo, di utile consulta può essere Silvano Lorenzoni,
L'equilibrio antropocosmico e lo snaturamento del tempo, Primordia, Milano,
2001.
(16) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(17) Paul Rivet, Origines, cit.
(18) Paul Rivet, Les autraliens en Amérique, Bulletin de la Société de
linguistique de Paris, 1925.
(19) In riguardo alla 'rotta antartica', il Rivet (Origines, cit.) si
appoggia all'opera di un brillante archeologo ed etnologo portoghese,
António Mendes Corrêa (Boletim da Sociedade portuguesa de antropologia e
etnologia, Pôrto, 1925).
CAP. 5 LA VALUTAZIONE DEL TEMPO
Avendo, poco sopra, messo a fuoco il fatto della fattuale eternità
dell'uomo, vale la pena di fare il punto di quale deva essere la valutazione
giusta di questo tempo indefinito; e a questo sarà dedicato questo breve
capitolo. Già negli anni Venti, Edgar Dacqué (1) affermava che bisognerebbe
sempre avere una visione sovratemporale delle cose, senza la quale non ci
può essere una vera scienza; ma la problematica del tempo, quando la si
voglia trattare in profondità non si presenta facile e, non a caso, pochi
l'hanno affrontata: lo scrivente ha tentato di dare un esposto il più
completo possibile sull'argomento in un suo recente scritto (2), al quale il
lettore è riferito se volesse approfondire.
Una delle conclusioni alle quali lì si poté arrivare è che non esiste un
tempo 'assoluto', indipendente da chi ne ha esperienza esistenziale, in
quanto ogni osservatore - essere osservante - ha un suo tempo
psico-biologico non omologabile a quello di un altro essere osservante
(questo diverrà importante anche quando si parlerà di fatti linguistici,
cfr. il Cap. 1 della II parte). Quando si guardi verso il passato, è lecito
estrapolare linearmente il tempo storico soltanto fino a dove si possa
essere ragionevolmente sicuri dell'esistenza di umani osservanti a noi
essenzialmente analoghi per quel che riguarda la loro struttura
psico-biologica: quindi uomini sul tipo di quelli rintracciabili adesso
nell''ecumene artico' che è stato definito ai Capp. 1 e 2 di questa prima
parte. - Questa conclusione lo scrivente la aveva raggiunta esclusivamente
sulla base di considerazioni epistemologiche (specificamente, traendo le
conseguenze ultime dalla Kritik der reinen Vernunft di Immanuel Kant),
ponendo il limite oltre il quale l'estrapolazione lineare del tempo, in
direzione del passato, diventa abusiva, sui 20 - 50.000 anni. Ma una
conferma viene anche dalla scienza 'positiva': i metodi di datazione
accettati sono abbastanza esatti fino a circa 7.000 anni addietro, meno
esatti fino a 20 - 50.000 anni addietro e nessuno si spinge oltre con alcun
grado di esattezza (3): più indietro, è lecito immaginarsi un'umanità, pure
esistente, molto diversa da quella odierna. Questa coincidenza di risultati
fra un esame epistemologico e dati empirici (o ragionevolmente presunti
tali) è per lo meno interessante, anche a non volere invocare alcuna
evoliana 'occulta convergenza'.
Quando si voglia andare a ritroso oltre quei 50.000 anni (circa) - o si
vogliano fare previsioni per un futuro improbabilmente lontano - il tempo
diventa sfocato; ci si deve accontentare di un 'prima' e un 'dopo', separati
da intervalli cronologici puramente simbolici. Attribuire delle lunghezze a
quegli intervalli, espresse sotto forma di 'ordini di grandezza' omologati
al tempo esistenziale dell'uomo civile contemporaneo, può essere un
esercizio, anche utile, che serve a 'darsi un'idea' al tipo di periodi
cronologici di cui si sta discutendo, ma che può diventare fuorviante quando
ci si dimentichi che si sta lavorando soltanto con delle 'protesi mentali'
di convenienza.
Perciò non si può - e non si deve - dubitare della realtà delle cosiddette
ère geologiche, quali esse sono evidenziate dal record fossile, ma esse
devono essere viste come dei periodi, separati da cesure catastrofiche sul
piano biologico, all'interno di ognuna delle quali la biosfera ebbe una
qualità diversa da quanto venne prima e da quanto seguì dopo. - Ci fu un
Terziario (incominciato '65 milioni di anni' fa), non ancora concluso, che
fu l'epoca del predominio della forma biologica mammifero (il cosiddetto
Quaternario è un'era geologica artificiale, che viene fatta incominciare a
decorrere da quando, in base a evidenza setacciata per non urtare con il
dogma darwinista, esisterebbe l'Homo sapiens, e la cui 'data di inizio'
viene quindi continuamente spostata). Ci fu un Secondario (incominciato '250
milioni di anni' fa) che fu l'epoca del predominio dei rettili; un Primario
(incominciato '600 miloni di anni' fa) che incominciò con il predominio dei
trilobiti (Cambriano) e finì con quello degli insetti (Carbonifero/Permiano)
e un ancora più misterioso Precambriano. In tutti questi periodi ci fu una
persona umana - così come il tempo non ha avuto inizio e non avrà fine,
anche l'uomo non ha vuto un inizio e non avrà una fine - essere portatore di
cultura nel mondo e responsabile dell'equilibrio cosmico (4).
È appropriato concludere con una nota di carattere, più che storico,
metafisico. L'uomo, all'interno del mondo biologico, è soggetto e nel
contempo attore nelle fenomenologie della decadenza e delle cesure epocali,
ossia nei cicli storico-cosmologici. e il ciclo è il modo in cui il
non-tempo del fondo ontologico dell'universo (l''incondizionato') si
riflette nel mondo fenomenico (il condizionato), che invece è soggetto al
tempo (5). Il fenomeno della decadenza, alla fine di ogni ciclo, è una
conseguenza diretta del fatto che il mondo biologico è immerso nel tempo.
(1) Edgar Dacqué, Natur und Seele, Oldenbourg, Münche, 1928.
(2) Silvano Lorenzoni, Chronos, cit.
(3) Cfr. Alberto Broglio e Janusz Kozlowski, Il Paleolitico, Jaca Book,
Milano, 1987 (il neandertaliano, in Europa, scomparve circa 50.000 anni
addietro). Una realtà di questo genere era stata intuita anche da un
interessante storico tedesco (sul quale si ritornerà nella III parte),
Heinrich Wolf (Angewandte Rassenkunde, Weicher, Berlin/Leipzig, 1938).
(4) Cfr., per esempio, Silvano Lorenzoni, Equilibrio, cit.
(5) Questo, visto già da Platone, fu ripreso da Arthur Schopenhauer nella
sua Die Welt als Wille und Vorstellung e poi dallo scrivente nel suo
Chronos, cit.
IL SELVAGGIO COME DECADUTO
di Silvano Lorenzoni
INDICE
INTRODUZIONE: CONTRAPPOSIZIONE EVOLUZIONE-INVOLUZIONE
I PARTE. IMPOSTAZIONE DEL PROBLEMA
1 Il fatto razziale
1.0 Introduzione: il fatto razziale come fenomeno obiettivo
1.1 Teoria tradizionale delle razze: Julius Evola
1.2 Distribuzione delle razze: il meticciato
1.2.0 Introduzione
1.2.1 Distribuzione delle razze
1.2.2 Il meticciato come meccanismo di formazione di nuove razze
1.2.3 Il problema delle razze standard: importanza di pigmei e pigmoidi
2 Classificazione delle culture selvagge: l'asse Nord-Sud
2.0 Introduzione: correlazione tra fatto razziale e fatto culturale
2.1 Le culture selvagge secondo Wilhelm Schmidt e rielaborazione della sua
classificazione
2.1.1 Pigmei
2.1.2 Antartici
2.1.3 Culture meticce o tropicali
2.2 Gli 'uomini scimmia' e il neandertaliano
2.3 Le scimmie e gli insetti sociali
2.4 Geografia della barbarie: l'asse Nord-Sud
3 Cenni storici
3.0 Introduzione
3.1 Il selvaggio come decaduto: da Joseph De Maistre a Julis Evola
3.2 La decadenza come problema della storia comparata delle religioni
4 La fisima evoluzionistica e la posizione dell'uomo nel Cosmo
4.0 Intoduzione
4.1 Il darwinismo: sua matrice biblio-talmudica
4.2 Gli argomenti statistici
4.3 Antichità vera e diffusione dell'uomo
5 La valutazione del tempo
6 Il ricordo della decadenza
6.0 Introduzione: identificazioni storiche e ricordi ancestrali
6.1 Origine umana del subumano e dell'animale
6.2 Il selvaggio vede sé stesso come un decaduto: 'neritudine' del male
6.3 Ricordi e proiezioni biologiche ed etologiche
7 L''uomo fuori dal tempo': Edgar Dacqué
8 Il mito polare e il concetto di campo antropogenico
8.1 La 'luce del Nord'
8.2 Il concetto di campo antropogenico
8.3 I continenti perduti
II PARTE. TRACCE EMPIRICHE DELL'INVOLUZIONE E CASISTICHE PARTICOLARI
1 Argomenti tratti dalla linguistica
1.0 Introduzione: la lingua come 'specchio dell'anima' e psicologia
linguistica
1.1 Alcune casistiche specifiche
1.1.1 Lingua parlata e lingua liturgica
1.1.2 Il numero
1.1.3 Le lingue dei pigmei
1.1.4 L'inflazione lessicale e lo spreco del gerundio
1.2 Carenza di percezione del futuro del selvaggio e suo riflesso nella
lingua
1.3 L'americano, lingua bantà del futuro
1.3.1 Introduzione: caratteristiche bantù dell'americano
1.3.2 L'americano è un 'papiamento': il meticciato linguistico
1.3.3 L'americanizzazione linguistica del Sud del Mondo
1.3.4 Confronto con le lingue boscimanesche
2 Argomenti tratti dalla storia comparata delle religioni
2.0 Introduzione
2.1 Il culto astrale
2.2 Il deus otiosus
2.2.1 Il 'monoteismo primordiale' di Wilhelm Schmidt e il deus otiosus di
Mircea Eliade
2.2.2 Fenomenologia generale
2.2.3 Percorso storico del deus otiosus fino alle casistiche contemporanee
2.3 La banalizzazione delle iniziazioni
2.3.1 L'iniziazione
2.3.2 Fenomenologia generale
2.3.3 Percorso storico della banalizzazione delle iniziazioni fino alle
casistiche contemporanee
3 Argomenti tratti dalla storia culturale
3.0 Introduzione
3.1 Il possesso del fuoco
3.2 L'organizzazione 'politica'
3.3 L'indirizzo 'economico'
3.4 Petroglifi, megaliti, artefatti e alfabeti incomprensibili
4 Il selvaggio e la psicopatologia
4.0 Introduzione
4.1 Labilità psicologica del selvaggio e sue analogie con la schizofrenia
nell'uomo civile
4.2 Tendenza alla tossicodipendenza e all'etilismo
4.3 Psicopatologia sessuale
5 Il Sud del Mondo quale nicchia patologica
5.0 Introduzione
5.1 Concetto di nicchia patologica: il Sud del Mondo come meganicchia
patologica
5.2 Patologie contemporanee e future
5.2.1 L'AIDS
5.2.2 Patologie 'in agguato'
5.3 Patologia demografica del Sud del Mondo e sua probabile implosione
biologica
III PARTE. ANDAMENTI METASTORICI E PROIEZIONI
1 Il fattore psichico nell'andamento razziale
1.0 Introduzione
1.1 Lo scambio psicofisico
1.1.1 Influsso psicofisico dell'ambiente: Juluis Evola
1.1.2 Origine degli ebrei e realtà di una razza ebraica
1.1.3 L'ecumene semitico-negroide
1.2 La 'minaccia del subumano'
2 Involuzione autogena ed eterogena
2.1 Andamento storico della distribuzione razziale: i pigmei quali 'decaduti
puri' e gli altri selvaggi insorti per meticciato
2.2 Mediterranei e ainu
2.3 Gli indoeuropei e la 'razza nordica'
3 Casistiche contemporanee e prospettive
3.0 Introduzione
3.1 I nuovi pigmei
3.2 Ebrei, chazari, calvinisti
3.3 Confronto fra il mondo preistorico e quello contemporaneo: uno scenario
possibile
-----------------------------------------------------------
INTRODUZIONE: CONTRAPPOSIZIONE EVOLUZIONE-INVOLUZIONE
Man lebt nicht nur sich selbst zur Freude, sonder auch seinen Feinden zum
Trotz [Non si vive soltanto per propria soddisfazione, ma per sfidare i
propri nemici].
Manfred Roeder (1).
Quello che importa è essere nel mondo contemporaneo, sempre pronti a
confrontarsi con esso e ad accogliere le sue sfide, senza essere di questo
mondo, appartenendo a un'altra razza, a un altro stile, legati ad altri miti
e ad altri valori.
Adriano Scianca (2).
La moda culturale contemporanea impone la Weltanschauung evoluzionistica,
secondo la quale ogni cosa ha la sua scaturigine in qualcosa di 'meno':
dalla bestia all'uomo, dalla barbarie alla civiltà, ecc. Quindi anche nel
selvaggio (ormai a ogni effetto pratico estinto, nella sua forma prisca,
perché è stato obiettivo di etnocidio premeditato) si deve vedere l'immagine
di quello che dovette essere l'antenato dell'uomo civile (modernisticamente:
'quello che possiede un'avanzata tecnologia') - antenato che poi, in ragione
di cause fortuite ambientali e mai dipendenti dalla natura intrinseca di
alcuni umani che li avrebbe resi diversi da altri, in qualche posto si
sarebbe 'evoluto' mentre in altri esso sarebbe rimasto allo stato
originario.
Secondo il punto di vista opposto, sostenuto validamente da diversi
pensatori (sul lato storico si riverrà in dettaglio al Cap. 3 di questa I
parte), nei selvaggi - nei cosiddetti Naturvölker, secondo la terminologia
degli etnologi tedeschi dell'Ottocento, poi resasi di uso generale - si ha
da vedere residui degenerati di genti che negli eoni del passato furono
civili e che, come conseguenza di fatti non solo biologici o storici ma
anche metabiologici e metastorici, presero la via della decadenza e
dell'animalizzazione (cfr., in particolare, il Cap. 6 di questa I parte, i
Capp. 1 e 2 della II parte e il Cap. 1 della III parte). Il selvaggio non
verrebbe a essere, quindi, un uomo preistorico, ma post-storico.
Lo scrivente, avendo appreso e fatto suo questo secondo punto di vista -
pure condiviso da diversi notevoli studiosi - già all'inizio degli anni
Settanta, non ebbe modo di rintracciare una trattazione sistematica
dell'argomento: ed è del tutto probabile che essa non esista proprio. Egli
si sobbarcò quindi l'onere di mettere insieme, attraverso decenni, spezzoni
di informazione, usando l'insieme dei quali egli ha adesso proceduto alla
stesura di questo libro che viene a essere, quasi sicuramente, l'unica opera
che abbia la pretesa di affrontare questa problematica sotto ogni
angolatura.
Nella I parte si imposterà il problema in modo generale e facendo il punto
di una serie di aspetti pertinenti a questo studio. Avendo fatto ciò, si
renderanno esplicite e documentate due tematiche, fra loro non disgiunte e
ambedue della massima importanza:
(a) L'etnologia, interpretata in modo giusto, dimostra che presso i selvaggi
rimane un'impronta del loro passaggio involutivo; e questo sarà affrontato
nella II parte. Si prenderanno in considerazione gli aspetti linguistici,
religiosi, culturali, psicopatologici, sanitari. Saranno ipotizzati i
processi storici per il percorso discendente da un'umanità superiore a una
inferiore, con riferimento a certe fenomenologie contemporanee che tali
processi storici potrebbero rispecchiare. Questo, sarà portato a termine
nella II parte.
(b) Si vorrà dimostrare come adesso stia prendendo forma una condizione che
potrebbe innescare, su scala planetaria, una morfologia sociale e culturale
quale essa poté essere nella cosiddetta 'alta preistoria'. Adesso, dunque,
ci si potrebbe trovare sull'orlo di un 'frattale nel tempo' che potrebbe
avere luogo, storicamente parlando, anche molto presto (fatti pure i dovuti
distinguo sulla qualità del tempo storico, cfr. il Cap. 5 di questa I
parte). Questo, sarà l'assunto della III parte.
Vale una nota sull'informazione di cui si possa disporre e della quale ci si
deva accontentare. È certo che mai si disporrà di tutta l'informazione
esistente (su qualsiasi argomento); e che anche se si potesse averla non
basterebbero tre vite per leggerla e valutarla tutta. Bisogna perciò usare
il proprio giudizio per decidere quando se ne ha a sufficienza per dare
forma al proprio assunto. Letture mirate, scelte con criteri statistici
validi - includendo la stampa quotidiana, che al giorno d'oggi è una fonte
importantissima di informazione - risultano adeguate e, in numero
ragionevole, servono a dare quella visione d'insieme che è quasi sempre
sufficiente. Nel caso specifico dello scrivente, egli ha attinto anche alle
sue esperienze e osservazioni personali fatte nel trascorso della sua
permanenza pluridecennale nel 'Sud del Mondo'.
Sandrigo (Vicenza),
inverno 2003/2004.
note:
(1) Manfred Roeder nella lettera circolare mensile Deutsche Bürgerinitiative
(Schwarzenborn, Hessen), N. 6/2001.
(2) Adriano Scianca nel mensile "Orion" (Milano), settembre 2003.
---------------------------------------
------------------------------------------
I PARTE. IMPOSTAZIONE DEL PROBLEMA
CAP. 1. IL FATTO RAZZIALE
1.0 Introduzione: il fatto razziale come fenomeno obiettivo
Le caratteristiche pongidi (scimmiesche) di quasi tutti i selvaggi erano
state descritte in modo ineccepibilmente obiettivo ed esplicito dagli
studiosi seri di razziologia; e dopo che, nel 1945, in Europa - e non solo -
calarono le tenebre, ci sono stati forse solo due autori, ambedue
americanofoni, che possano essere classificati come ricercatori seri nel
campo della razziologia: John Baker (1) e Carleton Coon (2), alle cui opere
si farà spesso riferimento nel corso di questa trattazione. Essi furono
studiosi seri nel senso che il loro obiettivo fu quello di descrivere
scientificamente i fatti razziali e non di 'dimostrare' -
'scientificamente', è chiaro - che il medesimo è inesistente, in obbedienza
alla pressione della moda culturale contemporanea e alla convenienza di non
mettersi contro coloro da cui dipendono stipendi e prestigiose posizioni.
Carleton Coon pagò la sua onestà intellettuale con l'esclusione dal posto di
lavoro e il silenzio mediatico nei suoi confronti (3). Ma il 'caso Coon' non
è certo unico: moltissimi sono stati gli scienziati che per essersi messi
contro la dogmatologia imperante hanno pagato caramente le loro coraggiose
prese di posizione (4). E di dogmatologia si può parlare a buon diritto: in
America si sta meditando di togliere i fondi agli specialisti della genetica
del comportamento con il pretesto che le loro ricerche potrebbero fomentare
il 'razzismo' (5).
Il problema della vera natura del selvaggio va abbinato alla fenomenologia
delle razze umane (6). Quindi, si può iniziare la trattazione del nostro
soggetto a una disamina del fatto razziale e della sua realtà. Da notarsi
che, dal punto di vista strettamente biologico, alla stessa specie (non alla
stessa razza) appartengono tutti quegli individui che sono interfecondi
(cioé: il meticciato è fra di loro possibile e il meticcio è a sua volta
fecondo); quindi, a buon diritto, si può parlare di una specie (non di una
razza) umana, costituita dall'ecumene di tutti quegli individui incrociabili
con un dato gruppo (umano) scelto come 'indicatore' (standard) di ciò che si
deve intendere per 'umano' (e all'interno di questa 'umanità' la biologia
distingue razze e sottorazze, come fa con qualsiasi altra specie animale o
vegetale - in riguardo, un ottimo riferimento è l'appena citato John Baker).
Qui, premesso che il problema della razza (si veda più avanti, in
particolare il Cap. 2 di questa I parte e il Cap. 2 della III parte) è non
solo biologico ma anche, e forse soprattutto, metabiologico, sia ricordato
che, in fondo, quando si voglia prescindere da ogni riferimento metafisico,
a volere circoscrivere l''umano' non ci si può aggrappare a niente di più
solido che definire come tale colui che sia accettato come 'umano'
all'interno di una comunità che a sua volta si autodefinisce umana (7). Si è
davanti a una situazione analoga a quella che Ludwig Wittgenstein (8) aveva
incontrato nel suo studio del linguaggio, non potendo concludere di meglio
che il 'significato' di una parola è quello che a essa scelgono di
attribuire coloro che la usano.
Adesso, gli aderenti e i sacerdoti dell'establishment 'democratico' aggirano
il problema seguendo due angolature diverse: (a) la prima, più rozza, è
quella di ammettere che le razze umane esistono ma che si tratta di fatti
esclusivamente morfologici senza alcun connotato psicologico o di capacità
intellettuale o di prestazione; (b) la seconda, più 'scientifica', è quella
di negare la razza senza mezzi termini, presentando il fenomeno razziale,
quale esso si manifesta nella realtà percepibile, come una specie di 'fata
morgana'. Ambedue queste pretese saranno brevemente esaminate.
Per quel che riguarda il caso (a) , invariabilmente si fa dell'eccezione la
regola - "ho conosciuto un negro/un boscimano/un australiano così
intelligente" - senza poi rendersi conto, in buona o in cattiva fede, che
quel selvaggio "così intelligente" sembra essere tale soltanto perché è
valutato contro un Hintergrund di suoi simili che 'così intelligenti' non
sono di certo. Quanto quel selvaggio 'così intelligente' riusciva a fare,
sarebbe stato più o meno quello che qualsiasi europeo o nord-est-asiatico,
magari di bassissima capacità (valutata in confronto ad altri europei o
nord-est-asiatici, magari addirittura 'mongoloide'), sarebbe stato
agevolmente capace di fare. E comunque, Rémy Chauvin, etologo-principe,
assieme a Konrad Lorenz, della seconda metà del secolo XX, ci assicura che a
qualsiasi animale si può insegnare a fare praticamente qualsisi cosa, basta
mettercisi d'impegno (9): nei primi anni del secolo XX uno spagnolo, certo
Leopoldo Lugones, aveva insegnato a uno scimpanzé a parlare con linguaggio
umano - la povera bestia, che si spaventava al suono della sua nuova voce,
morì presto per effetti nervosi (10).
Molto più calzanti sono state osservazioni fatte da persone non obnubilate
da lavaggi cerebrali in senso 'ugualitarista' (11). Valga un ottimo esempio,
tolto dal 'taccuino personale' dello scrivente: una distinta signora di
origine est-europea, che lo onorò della sua amicizia, gli riferì (12) come
essa, preposta a certi lavori di giardinaggio artistico, si doveva servire
del lavoro di una squadra di selvaggi ('inciviliti') dai quali lei, a
differenza di tanti altri europei che il medesimo tipo di manodopera
dovevano utilizzare, riusciva a ottenere delle buone prestazioni - e qusto
essa lo attribuiva ad avere messo a profitto dell'esperienza ottenuta nella
sua terra d'origine dove era stata insegnante in un'istituzione per
deficienti mentali (13).
Il caso (b) è solo apparentemente meno grossolano, perché qui ci si spaccia
per 'scienziati'; e al giorno d'oggi chi parla in nome della 'scienza'
(quella ufficiale, che fa il buono e il cattivo tempo nelle cattedre
universitarie e che gode delle casse di risonanza mediatiche) ha sempre
ragione. Un vizio di questa 'scienza' è quello di fare continuamente
confusione - generalmente in cattiva fede - fra la realtà fattuale, o
presunta tale, e l'apparato matematico utilizzato per descriverla. Anzi, la
simbologia matematica e le montagne di dati opportunamente 'macinati' usando
il calcolatore elettronico vengono presentati come la realtà 'reale', mentre
quello che si vede, palpa e ode non viene a essere se non una specie di
fantasma - quando la realtà non coincide con l'output del calcolatore
(opportunamente programmato per dare risultati che non urtino con la moda
culturale), tanto peggio per la realtà. Adesso, l'establishment
'scientifico' ha messo mano a una struttura miracolosa (14), il cosiddetto
DNA, dalle proprietà della quale deriverebbe tutto ciò che è vivente (15) -
quindi, si pontifica, siccome le differenze statistiche (magari stabilite ad
hoc per 'dimostrare' certe tesi) fra il DNA di diverse razze sono inferiori
a determinati limiti, esse 'scientificamente' sono indistinguibili. (Sia qui
riportato che con questo argomento ci è stato chi ha voluto includere le
scimmie antropomorfe fra gli umani [16].)
Non a caso, nei testi seri di razziologia - prima della guerra, soprattutto,
ma anche dopo, tipo quelli dei già citati John Baker e Carleton Coon, ma
anche il gesuitico ma onesto antropologo Vittorio Marcozzi (17) - nel
descrivere i diversi tipi razziali accompagnavano il testo da immagini
fotografiche che permettevano al lettore di di orientarsi quando dovesse
giudicare a quale razza potesse appartenere un qualche individuo che gli
stesse davanti. Adesso si danno 'mappature di DNA' cha a nessuno possono
servire da guida pratica (non solo ai 'non iniziati': letteralmente a
nessuno). Un libro particolarmente squallido - ma illustrativo per quel che
riguarda questo argomento - è stato recentemente pubblicato da due
conosciuti tromboni dell'establishment, certi Luigi Cavalli-Sforza e Alberto
Piazza (18); secondo i quali la razza (per loro un fatto esclusivamente
somatico: l'intellligenza, invecece, dipende da molti geni che non c'entrano
con quelli che determinano la 'razza' e quindi fra le due cose non ci può
essere alcuna correlazione) dipende solo da una piccolissima parte del
genoma e riflette soltanto l'ambiente in cui le diverse stirpi umane sono
vissute negli ultimi 100.000 anni (già, l'uomo, per forza, non può esistere
se non da 100.000 anni ed essersi 'evoluto' darwinisticamente - cfr. il Cap.
4 di questa I parte). Ne concludono (difficilmente potrebbero continuare a
tirare il loro stipendio se concludessero diversamente, vedi più sopra cosa
successe a Carleton Coon) che "la razza, scientificamente, non esiste più",
che "la purezza della razza non è un vantaggio ed è la più stupida proposta
che sia stata fatta" e che si prevede il meticciato universale, fatto molto
conveniente dal punto di vista 'genetico'. A questo punto vale la pena di
citare quanto asserito dagli autori neomarxisti Michael Hardt e Antonio
Negri (19) secondo i quali (in ragione dei progressi riduzionisti della
biologia, che di tutto fanno 'mappature di DNA'), viene non solo a cadere il
fatto razziale, ma anche la distinzione fra uomo, animale e cyborg (essere
metà biologico e metà meccanico/elettronico) - si potrebbero aggiungere,
perché no, anche le piante a questo elenco (20). E siccome gli appena citati
Luigi Cavalli-Sforza e Alberto Piazza raccomandano il meticciato, si
potrebbe aggiungere che l'incrocio con animali e piante, sicuramente
eseguibile con tecniche OGM, potrebbe essere il prossimo passo verso uno
straordinario miglioramento della cosiddetta umanità.
1.1 Teoria tradizionale delle razze: Julius Evola
Avendo menzionato il fatto che la razza è un fatto non solo biologico ma
anche e soprattutto metabiologico, è il caso di dare un'idea estremamente
schematica della teoria tradizionale delle razze, che diverrà della massima
importanza per quel che segue di questo libro, in particolare i Capp. 1 e 3
della III parte. Questa teoria (21), il cui sviluppo è dovuto quasi
esclusivamente a Julius Evola, è basata sull'assegnazione di caratteri
razziali propri a ognuna delle tre componenti che, tradizionalmente,
costituiscono il 'composto umano': corpo, anima e spirito (22). Il corpo
viene a essere la manifestazione tangibile e visibile dell'individuo - umano
e non-umano -, mentre lo spirito ne è il 'pricipio informatore' metafisico,
posto fuori dal tempo, che ne dirige la prassi e il pensiero in senso
anagogico o catagogico. L'anima, o psiche, "è connessa a ogni forma vitale
così come a ogni forma percettiva e a ogni passionalità. Con le sue
diramazioni inconsce stabilisce la connessione fra spirito e corpo" (23).
Essa, come il corpo, è peritura, ed è il fattore determinante per lo stile
della persona - per il modo in cui essa affronta ogni compito, ma senza
alcun riferimento al valore etico del compito stesso. "Gli uomini sono
diversi non solo nel corpo ma anche nell'anima e nello spirito ... la
dottrina della razza deve articolarsi in tre gradi " (24). Quindi: c'è una
razza del corpo, una dell'anima e una dello spirito, ognuna delle quali è
suscettibile di classificazione, e questo Julius Evola lo ha affrontato
nella sua Sintesi di dottrina della razza, mentre una versione semplificata
fu da egli esposta in un suo libretto didattico, Indirizzi per un'educazione
razziale (25). Per quel che riguarda la razza del corpo e dell'anima, Julius
Evola si appoggiava ai lavori degli antropologi seri dei suoi tempi - in
particolar modo Hans F. K. Günther, un autore sul quale si avrà occasione di
ritornare nella III parte, e Ludwig Ferdinand Clauss (26) -, che però si
occupavano essenzialmente delle differenze esistenti fra i diversi tipi
umani riscontrabili in Europa o al massimo nel Medio Oriente. Egli invece
propose, in via del tutto indipendente, una classificazione delle razze
dello spirito - in riguardo il lettore è riferito ai testi originali.
Per quel che riguarda il nostro assunto, di fondamentale importanza è che
"l'un elemento cerca di trovare, nello spazio libero che le leggi
dell'elemento a esso immediatamente inferiore gli lasciano, una espressione
massimamente conforme ... non semplice riflesso, ma azione a suo modo
creativa, plasmatrice, determinante" (27). In altre parole, le razze
dell'anima e dello spirito che interengono in ogni composto umano
abbisognano di un 'supporto adeguato' a livello immediatamente inferiore.
Ben difficilmente una razza dello spirito di 'prima qualità' potrà tovare
spazio accanto a un'anima che non le sia strumento adeguato per
manifestarsi; e lo stesso dicasi per la razza dell'anima rispetto a quella
del corpo.
Questo tipo di considerazioni danno adito anche ad altri sviluppi, adombrati
dallo stesso Julius Evola, che sono gravidi di conseguenze per le
problematiche qui sotto esame. "Una idea, dato che agisca con sufficiente
intensità e continuità in un determinato clima storico e in una data
collettività finisce con il dare luogo a una 'razza dell'anima' e, con il
persistere dell'azione, fa apparire nelle generazioni che immediatamente
seguono un tipo fisico comune nuovo da considerarsi ... una razza nuova"
(28). Cioé: il cambiamento nella 'qualità psichica' di una determinata
popolazione può innescare cambiamenti anche morfologici. Questo
ragionamento, portato alle sue ultime conseguenze, adombra un possibile
effetto a catena. In una popolazione nella quale lo spirito, magari per
qualche imperscrutabile ragione, si sia spento o capovolto, si produrranno
prima fenomeni degenerativi di tipo psicologico che poi, alla lunga, non
mancheranno di rifletttersi anche nel soma (su di questo argomento si
riverrà nella III parte).
1.2 Distribuzione delle razze: il meticciato
1.2.0 Introduzione
Si vuole adesso fare riferimento ai risultati dell' antropologia
geografica - la geoantropologia - quali essi sono stati sistematizzati dagli
antropologi fisici (e solo marginalmente psicoantropologi) più seri. Si fa
riferimento soprattutto al lavoro di Roberto Biasutti (29) e di Egon von
Eickstedt (30) - proseguiti validamente, dopo la guerra, da Vittorio
Marcozzi (31). Salvo indicazioni in senso contrario, il materiale empirico
utilizzato in quel che resta di questo capitolo è tratto dai lavori di
questi tre autori. Quanto sistematizzato qui sotto è della massima
importanza, come riferimento empirico, per quanto si avrà da dire al Cap. 3
di questa I parte e, in generale, in quanto segue di questo libro.
È ovvio che allo studio della distribuzione delle razze si deve anteporre
una loro classificazione; problema che si rivela complesso e che, in questa
sede, non sarà discusso in dettaglio (il lettore interessato si riferisca ai
testi specialistici originali). - La più antica delle classificazioni,
quella di Arthur de Gobineau (32) (fatta verso la metà dl secolo XIX), per
quanto piuttosto semplicistica ('bianchi', 'gialli', 'neri'), aveva già
allora colto il nocciolo del problema. Quando si dia uno sguardo 'dall'alto'
alla distribuzione razziale umana su scala globale, senza badare a distinguo
eccessivamente sottili, ci si rende conto che la 'semplicistica'
classificazione del de Gobineau era abbastanza azzeccata.
1.2.1 Distribuzione delle razze
Indipendentemente da qualsiasi classificazione dettagliata delle diverse
tipologie umane, la distribuzione della specie Homo sapiens su scala globale
presenta il seguente aspetto:
(a) Un ecumene 'settentrionale'/boreale/artico - il Nord del Mondo - il
'mondo civile'-, nel quale troviamo tipi e individui umani dotati di alta
potenzialità intellettiva e creatrice, facitori di civiltà e di storia.
Siamo davanti a quelle che Gaston-Armand Amaudruz (33) chiamò le grandi
razze e Silvio Waldner (con espressione mutuata da Umberto Malfronte) le
'razze di cultura' (34).
(b) Un ecumene 'meridionale'/australe - il Sud del Mondo - nel quale
troviamo tipi umani pochissimo dotati dal punto di vista intellettivo e
creativo, dall'intelligenza larvale e la pelle scura. Siamo davanti alle
'razze di natura' di Julius Evola e di Silvio Waldner (35).
Naturalmente, le 'zone d'ombra' non mancano, ma la visione d'insieme è
esatta. E, fatta questa constatazione, emerge subito un problema
metodologico che ancora non ha trovato soluzione (e difficilemente la potrà
avere, almeno se vogliamo seguire soltanto gli indirizzi della scienza
'positiva', sia pure in modo ineccepibilmente onesto e rigoroso). Mentre nel
caso delle razze di cultura l'identificazione è (abbastanza) agevole, dal
punto di vista sia morfologico che psicoantropologico - una razza europide
('bianca') e una nord-est-asiatica ('mongoloide/gialla') -, il Sud del Mondo
presenta un'incredibile varietà e confusione; tutta una fantasmagoria di
tipologie diverse che in comune, molto spesso, non hanno se non la brutalità
morfologica e l'infimo livello culturale. Ci si trova confrontati con un
genuino liquame genetico all'interno del quale è certamente difficile
raccapezzarsi: ma i tentativi fatti per trovare dei fili conduttori hanno
portato a ulteriori importanti sviluppi.
1.2.2 Il meticciato come meccanismo di formazione di nuove razze
Ancora nell'anteguerra si era affacciata l'idea che il meticciato potesse
essere un meccanismo formante di nuove razze. Date due (o più) razze che,
almeno come ipotesi di lavoro, sono presupposte 'pure', che vengono a
coabitare per lunghissimo tempo in determinate proporzioni numeriche in una
medesima area geografica all'interno della quale esse si mescolano, sempre
fra di loro, senza che ci siano altri apporti esterni che ne modifichino le
proporzioni originali o che introducano altre componenti genetiche, alla
lunga viene a formarsi quella che, a buon diritto, può essere chiamata una
'nuova razza'. Questa nuova razza presenterà una media dei caratteri delle
razze formanti, in modo uniforme e senza quegli sbalzi statistici estremi da
individuo a individuo che ci sono nelle fasi iniziali del meticciato. Così,
si può parlare di una 'razza etiopica' - o 'camitica', secondo la
terminologia dell'anteguerra -, misto europide-negroide; e di una razza
'indostana', misto europide-australoide; ambedue razze che, in ragione della
prevalenza dei caratteri europidi venivano e vengono, qualche volta,
classificate come varianti di una (malamente definita) 'razza caucasoide',
nella quale si ammucchiavano tutte le fenomenologie razziali che in qualche
modo potessero ricordare l'europeo. - A puntare l'attenzione sul fatto
'meticciato' sono stati, dopo la guerra, soprattutto i già citati Carleton
Coon e John Baker.
Nell'anteguerra - ma anche il già citato Vittorio Marcozzi - si esercitava
una notevole flessibilità nel classificare il fatto razziale, con la
conseguenza che si attribuiva una 'razza' particolare a tutta una pletora di
raggruppamenti umani. - Quando invece si metta a fuoco il fenomeno del
meticciato come meccanismo-principe per la genesi di nuove razze, insorge
naturalmente la domanda di quali veramente devano essere le razze standard
dalle quali si devano prendere le mosse per poter dire che altri tipi umani
sono il risultato di 'incroci stabilizzati' (questo argomento, di notevole
importanza, sarà sfiorato nella prossima sezione).
Il fatto che il meticciato sia e sia stato il più probabile 'motore' per la
genesi di nuove razze - soprattutto nel Sud del Mondo - è nel contempo
strano e conturbante. Questo fenomeno, storicamente, si è sempre dato quando
razze diverse si sono trovate a condividere lo stesso territorio; eppure,
invariabilmente, esso è sempre stato visto come qualcosa 'contro natura'.
Delle indicazioni in riguardo sono date da Julius Evola (36) - ma cfr. anche
Silvio Waldner (37) -, mentre John Baker (38) ci assicura che nella mancanza
di preferenza sessuale esclusiva per partner della propria razza,
presupposto necessario per il meticciato, si deve vedere un genuino fenomeno
di bestialità. E addirittura nell'estremo meridionale del Sud America, fra
gli ormai estinti indigeni della zona, il cosiddetto guaicurú - incrocio
fueghino-tehuelche, quindi un meticcio molto relativo - era visto come un
mostro, sia dai fueghini che dai tehuelche (39).
1.2.3 Il problema delle razze standard: importanza dei pigmei
Le razze standard sono sempre delle fabbricazioni più o meno soggettive e
teoriche basate sull'astrazione di un qualche insieme di caratteri somatici:
si definisce come 'puro' un individuo (spesso raramente riscontrabile nella
pratica) che rappresenti quei caratteri in modo esatto. Ci saranno poi
popolazioni che li rappresentino con tanta approssimazione da poter essere
esse stesse classificate, a ogni effetto pratico, come 'pure'; mentre altre
saranno più o meno ovviamente meticce. Anche se questo procedimento ha
dell'artificiale, se è usato da scienziati seri e onesti, essa ha certamente
una sua validità. E scienziati onesti e seri hanno cercato di astrarre, a
partire dall'osservazione delle popolazioni fattualmente esistenti, quali
dovevano essere le caratteristiche di quelli che, temporibus illis, dovevano
essere stati i tipi 'puri'; e quindi quali fra le popolazioni osservate li
rappresentassero con il massimo di approssimazione (si studiavano con
particolare attenzione ceppi che, presumibilmente, si erano mantenuti
isolati per tempi lunghissimi). Prima che gli svariati Luigi Cavalli-Sforza
ecc. (vedi più sopra) avessero pontificato l'inesistenza 'scientifica' delle
razze, si era approdati a riconoscere cinque (bianca, mongoloide, negra,
australoide e capoide o boscimanesca), e più probabilmente sei (con
l'aggiunta di quella amerindia), 'razze standard'. Queste sei razze essendo
poi classificabili in svariati tipi o sottorazze. - Carleton Coon vedeva
negli amerindi non una razza specifica ma una variante della razza
mongoloide, discendente da individui penetrati in America attraverso lo
stretto di Behring nell'alta preistoria (40), passaggio del quale (lo
concede lo stesso Coon) non c'è alcuna traccia di alcun tipo, paleontologico
o archeologico. Anche le lingue amerindie non hanno alcuna correlazione con
quelle siberiane (41). L'autottonia dell'uomo americano era stata sotenuta
invece, già nei primi anni del secolo XX, dal brillante studioso argentino
Florentino Ameghino (42). Non è chiaro perché Carleton Coon rifiutasse le
conclusioni di Ameghino, che invece avrebbero collimato perfettamente con la
sua teoria delle origini pitecoidi autonome delle diverse razze umane.
Ma la classificazione proposta non esauriva l'argomento. Dobbiamo al già
citato Carleton Coon (43) l'avere indicato che, almeno in un caso, una razza
standard (specificamente, quella negra, ma l'argomento è facilmente
estendibile ad altre), anche se poteva continuare a essere trattata come
tale con fini di riferimento descrittivo, era dal punto di vista storico una
razza di secondo grado. E il Coon mette a fuoco l'attenzione sul fatto
'pigmei', genti esistenti fino a recentemente a macchia di leopardo in tutti
i tropici, oggi fattualmente estinti prima per etnocidio e, dopo la
decolonizzazione, per genocidio. Queste genti, sulle quali ci si dilungherà
nel prossimo capitolo (ma anche nel Cap. 1 della III parte), rappresentavano
culturalmente (assieme forse ai tasmaniani e a qualche popolazione
dell'Africa meridionale già quasi estinta ai tempi della prima
colonizzazione europea) l'ultimo gradino della specie; e il Coon le
classifica tutte come morfologicamente negroidi (assieme ai tasmaniani e a
certe popolazioni della Papuasia e dell'India sud-orientale), benché
occupassero luoghi geografici distanti l'uno dall'altro e non avessero
contatti reciproci. E anche se il Coon non parla mai di una 'razza
pigmoide', egli ipotizza (documentatamente) che i pigmei dell'Africa fossero
i 'veri' negri, dai quali poi i negri che noi conosciamo e che costituiscono
la popolazione di quasi tutta l'Africa, sarebbero derivati attraverso
incrocio con genti 'caucasoidi' (cioé europidi, nella terminologia del Coon)
e 'capoidi' (boscimanesche) arcaiche. Nessuna ipotesi è stata fatta
sull'origine dei pigmei, che però già nel secolo XIX erano visti come forme
umane degenerate da notevoli antropologi (44). L'argomento del Coon è
suscettibile di generalizzazione, e questo sarà fatto nel prosieguo (III
parte).
(1) John Baker, Race, Oxford University Press , Oxford (Inghilterra), 1974.
(2) Carleton Coon, Las razas humanas actuales, Guadarrama, Madrid, 1969;
Storia dell'uomo, Garzanti, Milano, 1956.
(3) Il Coon, pure evoluzionista darwinista assolutamente convinto, era
arrivato alla strana conclusione che le diverse razze umane provenivano da
antenati 'pitecoidi' indipendenti e che poi, per 'evoluzione convergente',
esse erano arrivate a essere interfeconde. Le sue disgrazie incominciarono
allora, perché quanto egli venne ad asserire contraddiceva il dogma
dell'origine unitaria dell''umanità'. Cfr. Sergio Gozzoli nella rivista
"L'uomo libero" (Milano), N. 54, ottobre 2002.
(4) Un illuminante florilegio in riguardo, che copre tutti i rami della
scienza, è stato messo assieme da Federico di Trocchio, Le bugie della
scienza, Mondadori, Milano, 1997. Per quel che specificamente riguarda il
campo della paleontologia umana, si consulti Michael Cremo e Richard
Thompson, Archeologia proibita, la storia segreta della razza umana, Futura,
Milano, 1997.
(5) Notizia riportata in Rémy et Bernadette Chauvin, Le monde animal et ses
comportements complexes, Plon, Paris, 1977.
(6) Una buona introduzione in riguardo è quella di Silvio Waldner, La
deformazione della natura, Ar, Padova, 1997.
(7) Cfr. Vincenzo Tagliasco, Dizionario degli esseri umani fantastici e
artificiali, Mondadori, Milano, 1999.
(8) Cfr. Kurt Wucherl und Adolf Hübner, Wittgenstein, Rowohlt, Reinbek bei
Hamburg, 1979.
(9) Cfr. Rémy et Bernadette Chauvin, Monde, cit.
(10) La notizia è riportata da Giuseppe Sermonti, La Luna nel bosco,
Rusconi, Milano, 1985.
(11) Dei calzanti esempi, per quel che riguarda l'Africa e gli africani
trapiantati in America, sono dati da John Baker, Race, cit.
(12) In Iberoamerica, nella primavera del 1983.
(13) Alla fine degli anni Cinquanta un conosciuto psichiatra iberoamericano
scrisse sui giornali che gli abitanti di colore del suo paese, in Europa
sarebbero stati classificati come deficienti mentali.
(14) L'espressione è dovuta al più grande matematico della seconda metà del
XX secolo, il recentemente scomparso René Thom, Parabole e catastrofi, Il
Saggiatore, Milano, 1980.
(15) In riguardo a questa pretesa, Giovanni Monastra (Maschera e volto degli
OGM, Settimo Sigillo, Roma, 2002) ha scritto delle righe scientificamente
ineccepibili e molto acute.
(16) Cfr. Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(17) Vittorio Marcozzi, L'uomo nello spazio e nel tempo, Ambrosiana, Milano,
1953.
(18) Luigi Cavalli-Sforza e Alberto Piazza, Storia e geografia dei geni
umani, Adelphi, Milano, 2001.
(19) Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002.
(20) Lo scrittore fantastico norvegese Ludvig Holberg, nel suo Il viaggio
sotterraneo di Niels Klim, Adelphi, Milano, 1994 (originale 1741), aveva
ipotizzato un 'luogo' nel quale uomini, animali e piante avevano tutti il
diritto alla cittadinanza, purché avessero l'uso della ragione.
(21) Di questa teoria, un riassunto molto schematico è dato da Silvio
Waldner, Deformazione, cit.
(22) Sulla dottrina tradizionale del composto umano cfr. Julius Evola,
Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Mediterranee, Roma, 1971
e anche Sintesi di dottrina della razza, Ar, Padova, 1994 (originale 1941).
Un sunto di questa dottrina è dato anche da Silvano Lorenzoni, Chronos,
saggio sulla metafisica del tempo, Carpe Librum, Nove, 2001.
(23) Julius Evola, Sintesi, cit.
(24) Julius Evola, Sintesi, cit.
(25) Julius Evola, Indirizzi per un'educazione razziale, Conte, Napoli,
1941.
(26) Ludwig Ferdinand Clauss, Rasse und Seele, Lehmann, München, 1941.
(27) Julius Evola, Sintesi, cit.
(28) Julius Evola, Sintesi, cit.
(29) Roberto Biasutti, Razze e popoli della Terra, UTET, Torino, 1941.
(30) Egon von Eickstedt, Rassenkunde und Rassengeschichte der Menschheit,
Strecker und Schröder, Stuttgart, 1937.
(31) Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(32) Arthur de Gobineau, Essai sur l'inégalité des races humaines, tr. it.
Ar, Padova, 1964.
(33) Gaston-Armand Amaudruz, Nos autres racistes, Éditions Celtiques,
Montréal (Canada), 1971.
(34) Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(35) Julius Evola, Sintesi, cit., Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(36) Julius Evola, Sintesi, cit., e anche Il mito del sangue, Ar, Padova,
1994 (originale 1937).
(37) Silvio Waldner, Deformazione, cit.
(38) John Baker, Race, cit.
(39) La notizia è data dallo storico cileno Armando Braun Meléndez, Pequeña
historia magallánica, Francisco de Aguirre, Buenos Aires y Santiago, 1969
(originale 1937). "Las sangres puras, aun en las razas más inferiores del
género humano, pueden ofrecer algún individuo presentable. Pero mézclense
balancos, negros e indios entre sí y se obtendrán ... gestaciones
denigrantes. El mismo indio patagón, o sea el tehuelche puro, despreciaba y
perseguía al guaicurú [Il sangue puro, anche fra le razze più inferiori del
genere umano, può dare origine a qualche individuo presentabile. Ma si
mescolino bianchi, negri, indios e si otterranno ... risultati denigranti.
Lo stesso indio patagone, ossia il tehuelche puro, disprezzava e
perseguitava il guaicurú]".
(40) Sulla problematica del primo popolamento delle Americhe, valido è il
testo di Paul Rivet, Les origines de l'homme américain, Gallimard, Paris,
1957.
(41) Diverso é il caso degli esquimesi, arrivati in America nel I millennio
a.C. e del cui passaggio esistono abbondanti tracce archeologiche (anche la
lingua e la cultura esquimese sono di tipo siberiano). Cfr. il quotidiano
"Il Giornale" (Milano) del 27 ottobre 2001.
(42) Cfr. numero speciale del quotidiano "La Nación" (Buenos Aires,
Argentina) dl 25 luglio 1910 e anche Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(43) Carleton Coon, Razas, cit.
(44) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
CAP. 2 CLASSIFICAZIONE DELLE CULTURE SELVAGGE:
L'ASSE NORD-SUD
2.0 Introduzione: correlazione tra fatto razziale e fatto culturale
Ancora prima di decretare d'ufficio che 'scientificamente' le razze non
esistono, l'establishment aveva decretato, parimenti d'ufficio, la totale
mancanza di correlazione fra razza (definita morfologicamente) e cultura. La
realtà reale subiva in questo modo un attacco, come è abitudine inveterata
degli 'scienziati' ufficiali ogni qual volta essa si discosta dal dogma - di
questo si è già parlato.
È invece vero che tra forma antropologica ('razza') e cultura c'è una import
ante correlazione, della quale si erano accorti gli etnologi seri del
passato - in primis Wilhelm Schmidt (1) che nella sua opera monumentale
illustra questo fatto implicitamente ma in modo eccellente. Esplicita,
invece, su questo punto, almeno per quel che riguarda le culture dei pigmei,
è la distinta studiosa Ester Panetta (2) - e anche se non è del tutto chiaro
se sipossa parlare di una 'razza pigmoide' (ormai comunque estinta a ogni
effetto pratico) si ricordi che il già citato Carleton Coon classificava
tutti i pigmei, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, come
'negroidi' (assieme ai tasmaniani e a qualche altra popolazione di infimo
livello culturale). Ma, a parte i pigmei, che costituiscono un fenomeno
etnologico unico e interessantissimo, parallelismi culturali si trovano
spesso fra popolazioni selvagge disparate che in comune hanno non l'area
geografica ma soltanto la brutalità morfologica. - Qui vale un appunto sul
grado di 'primitività' che si deva attribuire a determinate popolazioni: a
parte i tasmaniani e i pigmei e pigmoidi, è opinione diffusa, ma quasi
sicuramente sbagliata, che i più 'primitivi' del mondo fossero gli
australiani e i boscimani. È invece probabile che questa loro non
invidiabile posizione la dovessero solo al fatto del loro isolamento. Studi
fatti su popolazioni africane che, presumibilmente, erano rimaste in
condizioni simili di isolamento, indicano un grado di primitività ancora
superiore a quello di australiani e boscimani. John Baker (3) indicava come
tutti i tratti culturali di 'alto' livello (si fa per dire) riscontrabili
nell'Africa subsahariana sono dimostrabilmente d'importazione. Wilhelm
Schmidt (4) mette specificamente a fuoco i dama delle montagne dell'Africa
sud-occidentale ex-tedesca, genti negroidi purissime (dal fisico striminzito
e nerissimi di pelle) dal livello culturale inferiore a quello dei
boscimani; al punto di essere stati vassalli dei boscimani e poi degli
ottentotti (meticci negroide-boscimanesco) dei quali adottarono la lingua
che pure parlano malamente. Nel dama si ha quasi sicuramente da vedere il
negro allo stato più culturalmente puro. Ma ci sono altri casi documentati
di assoggettamento, per tempo più o meno lungo, di negri da parte di
boscimani. Sulle montagne del Drakensberg (nel territorio, grosso modo,
dell'attuale Lesotho, nell'Africa meridionale), i gruppi negroidi sotho che
arrivarono nel secolo XVI furono per oltre un secolo vassalli dei boscimani
locali (di alcuni dei cui 're' si è tramandato perfino il nome): essi non si
'liberarono' dalla loro tutela se non in ragione del differenziale di
prolificità, molto più alto fra di loro che fra i loro 'signori' (5).
Ancora nella seconda metà del secolo XIX, un acuto autore boero aveva
osservato che, contrariamente a ogni apparenza, gli australiani, sotto tanti
punti di vista, erano meno diversi dai bianchi che non lo fossero i 'cafri'
(6).
2.1 Le culture selvagge secondo Wilhelm Schmidt e rielaborazione della sua
classificazione
2.1.0 Introduzione
Wilhelm Schmidt (7) classifica le culture più 'primitive' secondo il
seguente schema (accettato anche da Mircea Eliade):
(a) Cultura primordiale centrale (Zentrale Urkultur): pigmei e pigmoidi;
(b) Cultura primordiale meridionale (Südliche Urkultur):
sud-est-australiani, tasmaniani, boscimani, fueghini;
(c) Cultura primordiale artica: Siberia e America settentrionale;
(d) Cultura del bùmeran (8): Australia centrale, occidentale e
settentrionale.
Questa classificazione può essere presa come punto di partenza, ma necessita
di rielaborazione.
Per quel che riguarda la 'cultura primordiale artica', probabilmente si
tratta di un abbaglio: nell'Asia settentrionale essa è strutturalmente
simile alle culture centroasiatiche (9) e la sua 'primitività' tecnologica
ha forse da attribuirsi alla specializzazione e all'isolamento in cui quelle
popolazioni si vennero a trovare per lungo tempo e in clima ostile, come
poté essere il caso degli esquimesi. E qualsiasi accostamento con le culture
americane - sulle quali difficilmente si può tirare alcuna conclusione -
risente del fatto che anche Wilhelm Schmidt aderisce al mito culturale
dell'origine siberiana degli amerindi.
Viceversa, in vista delle considerazioni fatte nella sezione anteriore,
sembrerebbe che anche la cultura africana, nella sua forma originale della
quale rimanevano vestigia anche in tempi storici, deva essere inclusa nella
'cultura primordiale meridionale'. Quanto ai pigmoidi, un gruppo
culturalmente e fisicamente malamente difinibile (e fra i quali bisognerebbe
classificare anche i boscimani), probabilmente non costituiscono una classe
a sé (a differenza dei pigmei) e dovrebbero essere distribuiti fra diversi
altri gruppi culturali. Per quel che riguarda la 'cultura del bùmeran, essa
non sembra distinguersi da quella 'meridionale' se non per un livello
tecnico leggermente più alto, ma non nel lato religioso o linguistico (10):
è probabile che, come in Africa, anche se in minore misura, essa ha
usufruito di 'prestiti'.
Perciò si propone, almeno dal punto di vista strumentale, di classificare le
culture del Sud del Mondo in tre grandi gruppi:
(a) Culture pigmee;
(b) Culture 'antartiche' - grosso modo, le südliche Urkulturen di Wilhelm
Schmidt più quella del bùmeran;
(c) 'Culture meticce', quali, essenzialmente, potevano essere le culture
della fascia tropicale al momento della prima penetrazione di quelle zone da
parte di europei e giapponesi.
Ognuno di questi raggruppamenti sarà brevemente considerato dal punto di
vista geografico e culturale.
2.1.1 Pigmei
A questa cerchia culturale appartenevano delle popolazioni, ormai
praticamente estinte che, a macchia di leopardo, si trovavano su tutta la
fascia tropicale del pianeta. Di statura media maschile di al massimo metri
1,50, essi rappresentavano lo scalino culturale infimo (11) in tutti i
sensi - non solo tecnico, ma anche spirituale e religioso. E, fatto
importantissimo, tutti i pigmei del mondo, avevanoi dei tratti culturali
analoghi, nonstante le grandi distanze che separavano i singoli gruppi:
anche la loro religione (se così ci si può esprimere, cfr. il Cap. 2 della
II parte) è uniforme nei suoi tratti fondamentali - così Wilhelm Schmidt
(12).
Carleton Coon (13) classifica tutti i pigmei come razzialmente 'negroidi'; e
che, oltre alla bassa statura, essi abbiano tutti un aspetto fisico analogo
è ammesso anche dallo Schmidt, il quale (in onore alla moda culturale
secondo la quale ogni specie o razza deve avere avuto un'origine unitaria e
poi essersi diffusa) pone nell'India nord-occidentale il - puramente
ipotetico - centro di irraggiamento dei pigmei (14). Il medesimo (15),
quanto alle caratteristiche culturali di tutti i pigmei, ci dice che non
sapevano accendere il fuoco o ne avevano una conoscenza 'arcaica' (su di
questo cfr. il Cap. 3 della II parte); non avevano alcuna tecnica tessile o
ceramistica; utilizzavano l'arco e le frecce ma non lo scudo; la loro
numerazione arrivava al 2 (su di questo cfr. il Cap. 1 della II parte); non
praticavano alcun tipo di mutilazione corporale; non avevano alcun capo o
dirigente 'politico' (su di questo cfr. il Cap. 3 della II parte); non
praticavano la schiavitù o il cannibalismo. Qui è assolutamente ovvio - e
questo è detto esplicitamente da una studiosa che da prova di grande onestà
intellettuale, la già citata Ester Panetta (16) - che a caratteristiche
somatiche razziali analoghe corrispondono manifestazioni culturali analoghe.
Questo fatto è disonestamente negato dalla scienza ufficiale.
I raggruppamenti di pigmei ancora esisitenti fino a 50 - 100 anni addietro
possono essere elencati, continente per continente, come segue:
(a) Africa: stanziati nella foresta equatoriale che una volta si estendeva
fra lo sbocco del Congo fino alla base degli altipiani dell'Africa orientale
(17). Ormai ridotti a qualche sparuto vestigio; in massima parte sterminati
dai negri dopo la decolonizzazione.
(b) Asia sud-orientale: (i) andamanesi, ormai ridotti a qualche individuo
isolato e snaturato per meticciato (18); (ii) semang della Malacca, ormai
estinti per meticciato e qualche volta sterminio fisico da parte dei malesi
(19); (iii) negrito di Luzón settentrionale, nelle Filippine, in una
condizione non dissimile a quella dei pigmei africani, soggetti a massacri
oppure ad acculturamento e meticciato da parte dei malesi (20).
(c) Oceania: la presenza di pigmei è stata segnalata ripetutamente
all'interno della Nuova Guinea e nelle Nuove Ebridi (21), ma sul loro conto
l'informazione è particolarmente scarsa (come lo è, in generale, su tutta la
Papuasia). Carleton Coon (22) esprime dubbi sulla natura di queste
popolazioni, che non conosceva, suggerendo che forse non si trattava di
pigmei ma 'pigmoidi' (cfr. la prossima sezione). Di pigmei veri e propri,
dando qualche fotografia ma pochi altri dettagli, parla il viaggiatore
svedese Alfred Vogel (23). I coniugi Villeminot (24), che pure danno una
descrizione molto dettagliata della Nuova Guinea, non parlano assolutamente
di pigmei. C'è da credere che una popolazione pigmea ci fosse per davvero in
Nuova Guinea, e che anch'essa sia stata vittima di etnocidio e forse
genocidio da parte dei papuasi.
(d) America meridionale: già Paul Rivet (25) - e prima di lui l'autore
iberoamericano Alfredo Jahn (26) - aveva segnalato la presenza di una
popolazione nanoide (adesso estinta) nel Venezuela occidentale. È stato
suggerito che non si trattasse di pigmei ma proprio di nani, nel senso
patologico del termine (il che, comunque, sarebbe stato lo stesso un
fenomeno interessante); ma questo non è mai stato dimostrato. - Anche nel
Brasile meridionale, da tempo antichissimo, gli indigeni avrebbero saputo
dei cosiddetti cabeça de porco [testa di maiale, in lingua portoghese],
pigmei arboricoli dalle abitudini feroci. L'ultimo a vederli sarebbe stato
il medico ed esploratore argentino Lucas Fernández Peña negli anni Quaranta
del XX secolo (27).
2.1.2 Antartici
Si tratta di una catena di popolazioni, ormai anch'esse quasi estinte, che
fino a poco più di un secolo fa abitavano l''estremo Sud' del mondo, in
tutti i continenti. Erano caratterizzati da un livello tecnico poco più alto
di quello dei pigmei; e neppure essi avevano una conoscenza propria di come
accendere il fuoco (su di questo cfr. il Cap. 3 della II parte). Almeno per
quel che riguarda i tasmaniani, alcuni etnologi si sono addirittura
dimostrati dubbiosi su dove collocarli nella classificazione delle culture:
al di sopra o allo stesso livello dei pigmei? - Ma a differenza dei pigmei,
gli antartici posseggono generalmente una ricca mitologia. Nella cerchia
culturale antartica vengono generalmente inclusi:
(a) Tasmaniani (28), del tutto estinti, che sono stati spesso descritti come
le genti più 'primitive' del mondo. Razzialmente, Carleton Coon (29) li
classifica come 'negroidi', affini alle genti africane - e linguisticamente
e culturalmente essi rappresentavano qualcosa di assolutamente unico. Eppure
gli antropologi ufficiali li fanno derivare dai sud-est-australiani "perché
qualsiasi altra possibilità è impensabile" (così come gli amerindi devono
essere di origine siberiana).
(b) Australiani, divisi in due grandi gruppi: quelli del Sud-est e quelli
della cultura del bùmeran (30). Di razza australoide, essi verrebbero a
essere, secondo Carleton Coon (31) gli 'australoidi puri'.
(c) Fueghini, dell'estremo meridionale dell'America del Sud, che vengono a
essere le genti più 'antartiche' del mondo (32). Generalmente sono
classificati in tre gruppi: yámana, nell'estremo Sud; alakaluf, leggermente
più a Nord-ovest; ona o selknam nella piana settentrionale della grande
isola della Terra del Fuoco. Questi ultimi, però, molto diversi dagli altri
due, sono da considerarsi un ramo insulare dei tehuelche, o patagoni, della
pampa. Secondo il già citato Carleton Coon (33) essi apparterrebbero alla
variante amerindia della razza mongoloide; e Wilhelm Schmidt (34) fa
derivare la loro cultura addirittura da certe culture californiane (si sa,
gli amerindi, 'siberiani', devono per forza avere progredito da Nord a Sud).
In realtà gli yámana e gli alakaluf, oltre a essere diversissimi fra di
loro, non hanno alcunché a che vedere né morfologicamente né
linguisticamente né culturalmente con qualsiasi altro raggruppamento
amerindio.
(d) Boscimani, abitanti un tempo maggioritari dell'Africa meridionale (35),
ormai ridotti sul bordo dell'estinzione attraverso meticciato e sterminio
fisico da parte dei negri che, dopo la fine del governo dei boeri in Sud
Africa, li perseguitano nelle terre che erano state a loro riservate nel
Kalahari (Botswana e Africa sud-occidentale). Sono stati classificati come
razza a sé (capoidi) da Carleton Coon e da John Baker (36). Gli ottentotti
(ormai estinti da oltre un secolo), a loro linguisticamente affini,
sarebbero, secondo i medesimi autori, il risultato di un meticciato
'stabilizzato' (razza di secondo grado, si ritorni al Cap. 1 di questa I
parte) boscimanesco-negroide.
In riguardo ai boscimani (capoidi) è interessante quanto ha da suggerire
Carleton Coon (37), secondo il quale è possibile rintracciare, anche
archeologicamente, un loro spostamento dall'Africa settentrionale, loro sede
primigenia, fino al punto morto del Capo di Buona Speranza, spostamento
accompagnato da fenomeni degenerativi nel loro aspetto fisico (non a caso,
il boscimano, quale esso ancora sopravvive in qualche individuo isolato, ha
l'aspetto di un vecchio fin dalla nascita). Dei residui capoidi sarebbero
ancora riscontrabili, sotto forma di mostruosi incroci, in certe oasi del
Sahara meridionale; mentre in Sud Africa (38) rimane ancora una nozione
leggendaria che riguarda un cactus locale, il cosiddetto halfmens ['per metà
umano' in lingua afrikaans] che è sempre inclinato verso Nord: i halfmens
sarebbeo quei boscimani che, in fuga dalle loro sedi arcaiche, si sono
fermati per guardarsi indietro.
Non è chiaro se in questa cerchia culturale si dovrebbero includere tutti i
pigmoidi, popolazioni di poco più alte dei pigmei (metri 1,60). I fueghini
yámana e alakaluf, nonché i boscimani, sono spesso classificati come tali;
ma anche e soprattutto i vedda dell'Oceano Indiano, che spesso fanno da
'ponte' fra il gruppo antartico e quello tropicale. Essi costituiscono un
tipo particolare di popolazioni che si estendono dall'Indonesia orientale (i
toala di Celebes - Wilhelm Schmidt esita fra il classificare come pigmei o
come pigmoidi i pigmei della Nuova Guinea e delle Nuove Ebridi) fino
all'India meridionale e alla parte settentrionale dell'isola di Ceylon
(tamil), dove sono ancora presenti in buon numero, sebbene di massima
deculturati (39). Veddoide sarebbe, fin dalla remota preistoria, anche la
popolazione dell'Arabia sud-orientale (40), e genti veddoidi potrebbero
essere state presenti fino in Africa sud-orientale (41), dove però adesso
non ne rimane traccia.
Anche alcune (e forse la maggioranza) delle popolazioni africane
subsahariane, tipo i già menzionati dama, normalmente dovrebbero entrare nel
gruppo antartico. - Viceversa, non è chiaro se uno strano tipo, lo
strandlooper ['camminatore delle spiagge' in lingua afrikaans] sia qui
classificabile o non piuttosto fra gli 'uomini scimmia' (cfr. la sezione che
segue). Esso certamente esisteva, almeno con qualche raro individuo isolato,
ancora in tempi posteriori alla colonizzazione del Capo di Buona Speranza.
Mai avvicinato, è stato descritto come alto, magro, nerissimo di pelle,
completamente nudo, sempre solitario (42). Di questo tipo umano, o umanoide,
sono rimasti dei resti scheletrici, e la 'scienza' ufficiale ha pontificato
che si trattava di un boscimano, o di un ottentotto, ('alquanto atipico')
che si era adattato a vivere vicino alle spiagge cibandosi di frutti di mare
(43). Rimane però il fatto che la descrizione fisica che ne hanno dato
quelli che lo hanno potuto avvistare lascia intravvedere un individuo del
tutto diverso da un boscimano (piccolo e giallastro di colorito) e invece
piuttosto simile a un tasmaniano.
2.1.3 Culture meticce o tropicali
Sotto questo titolo si includono tutte quelle culture, poste, di massima,
nei tropici, la cui 'sostanza umana' portante è quella che, ai giorni
nostri, costituisce il cosiddetto Terzo Mondo. Si tratta di culture meticce
in quanto risultato di meticciato, non di rado biologico ma invariabilmente
almeno culturale, fra genti non dissimili, come capacità 'culturale', da
quelle antartiche, ma che hanno subito un qualche influsso - culturale e/o
biologico - dalle popolazioni civili del Nord del Mondo. Esse hanno
usufruito, se così si può parlare, della maggiore vicinanza topografica al
mondo civile (44). A questo scomparto appartengono quasi interamente, in
termini contemporanei, tutta l'Africa, il Medio Oriente, l'Indostan, l'Asia
sud-orientale (non esclusa la Cina meridionale), la Papuasia, la Polinesia,
le due Americhe. Questa situazione, già reale in tempi protostorici, lo è
ancora di più adesso.
Da notarsi che fino all'espansione coloniale europea cinque secoli fa,
all'interno della zona delle culture tropicali esistevano civiltà di alto
livello, isolate l'una dall'altra - si intende parlare delle civiltà
americane, peruviana e messicana, e di quella polinesiana. Rispetto alle due
prime, Julius Evola (45) aveva osservato che esse, pur pregevolissime sotto
tanti aspetti, si dimostrarono intrinsecamente fragili e che bastò una
spinta dall'esterno, nella fattispecie dell'attacco spagnolo, per farle
crollare completamente (e qualcosa di simile si potrebbe affermare per quel
che riguarda quella polinesiana). Sta di fatto che tutte queste civiltà
erano sorrette da aristocrazie dominanti razzialmente allogene rispetto alla
massa della popolazione: non a caso le cronache spagnole parlano delle
classi dirigenti americane, soprattutto incaiche, come di genti che non
avrebbero sfigurato in Europa. - E lo stesso è probabile che fosse il caso
in Polinesia. In modo particolare, nell'isola di Pascua, c'è evidenza che il
collasso della sua cultura sia stato innescato dall'eliminazione fisica, da
parte degli iloti, di un'aristocrazia da essi razzialmente diversa, che
della cultura e della civiltà era la garante (46).
Difficile dire se queste aristocrazie, americane e polinesiane, fossero
residui non ancora denaturati per meticciato, di vecchi ceppi civili o se si
trattasse di conquistatori arrivati in tempi estremamente remoti.
2.2 Gli 'uomini scimmia' e il neandertaliano
È stata fatta l'osservazione (47) che l'uomo (si veda il Cap. 4 di questa I
parte) è sempre stato accompagnato, durante la sua esistenza sulla Terra, da
'uomini scimmia'; e che come tali devono essere visti anche quei
'pitecantropi' i cui reperti fossili (quando non si tratta di banali falsi),
vengono continuamente a galla - non si trattò di 'antecessori', e tanto meno
di antenati dell'uomo, ma di suoi contemporanei.
In particolare, soprattutto ma non esclusivamente in Europa, l'uomo fu
accompagnato per lunghissimo tempo dal cosiddetto neandetaliano, del quale
rimane un vasto repertorio fossile e le cui caratteristiche somatiche,
quindi, sono conosciute abbastanza bene (48) e le cui abitudini possono
essere ricostruite con notevole approssimazione. In particolare, esso aveva
fortissime inclinazioni cannibalesche (49), mentre il suo aspetto fisico
ricordava quello dell'australiano. La sua area di diffusione, molto vasta
(50), includeva tutta l'Europa e tutto il Nord Africa, la costa occidentale
del Mar Rosso fino all'Etiopia, il Medio Oriente, l'Iran e il Turchestan.
Esso, già negli anni Settanta, era stato messo in relazione con il
fantomatico 'uomo delle nevi (yeti)' dell'Imalaia, della Mongolia,
dell'America del Nord (51). Questa nozione ebbe poi fortuna: in un suo
eccellente articolo (52), Roberto Fondi afferma che relitti neandertaliani
potrebbero esserci nel Caucaso, nell'Imalaia, nella Malacca e, forse, in
Nuova Guinea e in Australia. Ma qui si tratta di intendersi: non c'è bisogno
di immaginarsi che si tratti sempre di 'neandertaliani', ma potrebbero
essere svariate categorie di 'uomini scimmia' ancora disseminati per il
mondo e che verrebbero a costituire un'altra 'cerchia culturale' oltre ai
pigmei, agli antartici e ai meticci, anch'essa diffusa a macchia di
leeopardo su vastissime aree.
Difatti, la presenza di 'umanoidi' ('neandertaliani') è stata segnalata
quasi dappertutto (53). I più conosciuti sono l''uomo delle nevi (yeti)'
imalaiano (54), l'alma centroasiatico e il sasquatch nordamericano (55); ma
nei testi segnalati in nota si troveranno indicazioni per tutte le altre
parti del mondo. - Nella Siberia settentrionale, un umanoide alto 2 metri,
che parla a fischi e che è capace di confezionarsi indumenti di pelle di
renna è stato segnalato nel 1979 (56) e recentemente tutta una colonia dei
medesimi sarebbe stata localizzata nella regione siberiana di Kirov sul
fiume Viatka (57). - Nella zona delle rapide dell'Orinoco, ai primi
dell'Ottocento, l'esploratore Alexander von Humboldt (58) aveva avuto
notizia della presenza di un pericoloso umanoide, notizia che lo scrivente
poté poi confermare (59). - Nella parte più alta della catena montuosa di
Perijá (che adesso fa da frontiera fra Colombia e Venezuela), oltre i 3.000
metri, secondo quanto riferivano gli (ormai estinti) indigeni yupa,
allignava un non meglio definito 'uomo delle nevi' (59).
Questi 'yeti/neandertaliani' sono spesso, anche se non invariabilmente,
descritti come pericolosi, in quanto avrebbero tendenze antropofagiche e
insidierebbero le donne umane. Alcuni di loro avrebbero la possibilità di
conversare (tipo l'orang-pendek di Sumatra o quello di Viatka in Siberia) e
il loro 'livello tecnico' verrebbe a essere molto variabile. Ma essi sono
sempre all'erta, perché sanno che dall'uomo hanno tutto da temere e
dimostrano, nel fuggire e nel nascondersi, un'intelligenza molto più che
solo scimmiesca.
Per ritornare al neandertaliano, abbiamo l'importante fatto che non sembra
che gli europei moderni, i cui antenati hanno condiviso il territorio con il
neandertaliano per migliaia di anni, mostrino alcuna traccia di meticciato
con il medesimo (60). Casi di meticciato (pure rari) quasi sicuramente ce ne
furono nel remoto passato (61): conosciutissimi sono i crani del Carmelo in
Palestina, ma crani intermedi sono stati ritrovati anche a Steinheim
(Germania) e a Baisun (Uzbekistan) (62); mentre recentissimamente lo
scheletro di un meticcio (un bambino morto ancora piccolo) è stato trovato
in Portogallo (63). - Si tratta sempre di individui morti giovani e comunque
senza lasciare progenie.
Un andamento analogo vale per i moderni yeti. La lettteratura citata indica
che dagli accoppiamenti umano-umanoide nacquero quasi invariabilmente
individui morti ancora piccoli. I già citati Cremo e Thompson (64) citano
con qualche dettaglio un caso avvenuto a fine Ottocento nel Caucaso, dove
dei meticci umano-yeti avrebbero raggiunto l'età adulta ma non avrebbero
comunque lasciato discendenza. Questi meticci ci vengono descritti come
dalla pelle scura e dai tratti 'negroidi': e quando dei montanari del
Caucaso, che presumibilmente non avevano mai visto un africano in vita loro,
facevano una descrizione del genere, sicuramente non si riferivano a
'caratteri negroidi' nel senso tecnico, ma volevano indicare la brutalità
morfologica dei soggetti.
Tutto lascia indicare che, geneticamente, umani e neandertaliani, oppure
umani e yeti, fossero e siano ormai incompatibili o quasi: non si può perciò
più parlare di appertenenza alla stessa specie. Se adottiamo la definizione
biologica standard, per cui alla stessa specie appartengono individui fra i
quali è possibile il meticciato e anche il meticcio è fecondo, il
neandertaliano e lo yeti ormai non erano/ sono, dal punto di vista
biologico, umani.
2.3 Le scimmie e gli insetti sociali
Al di sotto dei pigmei e dei 'neandertaliani' è lecito porre le bestie e, in
particolare, i quadrumani. È concepibile che qualsiasi tipo di animale si
potrebbe costruire sia una sua 'cultura' che un complesso culturale, magari
articolato a macchia di leopardo, come è stato il caso per gli infimi
livelli umani. Nel caso delle scimmie, delle pertinenti analogie con l'umano
sono state accertate dagli studi etnologici ed etologici; mentre a livelo
più basso ogni analogia o riconducibilità a paradigmi concettuali umani
diviene molto più difficile (65). - Forse qui varrebbe la pena di tentare
degli sviluppi analoghi a quanto fu tentato alla svolta del secolo XX da
Otto Weininger (66) nel suo studio sulla sessuologia: dopo avere, almeno
come ipotesi di lavoro, definito l''uomo puro' e la 'donna pura' (67), egli
pensava di poter descrivere il comportamento di ogni singolo individuo
(pure, anatomicamente, del tutto maschio o del tutto femmina)in base alla
'percentuale' di mascolinità o di femminilità presenti nella sua psiche -
percentuale che poi egli ipotizzava potesse essere variabile nel tempo (68).
Un'ovvia estensione di questo concetto è che, potendo definire cosa sono
l'umanità pura e l'animalità pura, ogni singola specie potrebbe essere
caratterizzata etologicamente dalle percentuali dell'una e dell'altra
dimostrate dalla sua psiche - questi studi, che sicuramente darebbero dei
risultati interessantissimi, non sembra siano stati intrapresi da alcuno.
Rémy Chauvin - che assieme a Konrad Lorenz e a Irenäus Eibl-Eibesfeldt è
stato l'etologo-principe del XX secolo - ha pubblicato, sull'argomento delle
società e 'civiltà' animali, degli importantissimi studi (69). In
particolare, ne risulta che le strutture sociali dei primati - in
particolare degli scimpanzé - sono perfettamente omologabili a quelle, per
esempio, dei pigmei; e che fra gli scimpanzé esistono 'capi' (e, più spesso
'capesse') in guisa non dissimile a quanto osservato nelle organizzazioni
'politiche' dei pigmei e degli antartici (si consulti, più avanti, il Cap. 3
della II parte): fra le scimmie si danno spesso genuine 'dinastie', a
carattere generalmente matriarcale. Lo studioso sudafricano Eugène Marais
(70), negli anni Trenta del secolo XX, aveva magistralmente descritto le
'assemblee' dei babbuini che ricordano stranamente quanto ha da dirci lo
storico George Stow (71) sull'aspetto della 'corte' di un capo boscimano del
Genadeberg (montagne del Drakensberg) quale fu vista, verso il 1830, da un
ragazzo boero che aveva imparato la loro lingua e che in un'occasione fece
da 'ambasciatore' presso di loro. - E anche fra le scimmie (specificamente,
gli scimpanzé) è stato ipotizzato che essi si siano ramificati in 'culture'
diverse, a seconda delle inclinazioni e capacità di stirpi diverse fra di
loro (72).
Il progressivo allontanamento dall'umano è rintracciabile nei comportamenti
e nelle organizzazioni animali (73), a seconda che anche morfologicamente
essi si allontanano dal tipo Homo sapiens. Al livello degli insetti si
ripresenta il fenomeno sociale, con caratteristiche del tutto diverse, fra
le api, le termiti, le formiche (74) - ma anche certi roditori hanno colonie
strutturalmente analoghe agli alveari, compresa la presenza di una regina
(75). Qui insorge un nuovo tipo di intelligenza, che funziona in base a
leggi statistiche (o, al massimo, cibernetiche) e che di 'umano' ha ben
poco: l'alveare, il formicaio, il termitaio hanno una loro acutissima
intelligenza collettiva, tanto più potente quanto più grande esso è,
constatabile ma assolutamente incomprensibile.
2.4 Geografia della barbarie: l'asse Nord-Sud
A questo punto si può tentare di tirare, almeno provvisoriamente, le somme
sulla distribuzione delle popolazioni incivili della Terra.
Ci sono/ci sono state 'culture' selvagge a macchia di leopardo - pigmei,
'neandertaliani' e, alla fin fine, animali - e di tipo pandemico o quasi -
antartici, meticci. se le prime - e anche quelle antartiche - sono de facto
biologicamente estinte, quella intermedia dei meticci è adesso
biologicamente ipertrofica e minaccia di sommergere il mondo (ma su di
questo cfr. il Cap. 5 della II parte).
Il 'grado di degrado' riscontrabile nelle culture selvagge pandemiche è
proporzionale al loro allontanamento dall'ecumene artico e raggiungeva il
massimo con gli antartici. È quindi palese una direzione Nord-Sud, da
civiltà a barbarie. Ogni scaturigine di civiltà viene dall'ecumene artico; e
a seconda che le popolazioni del Sud del Mondo vengono a trovarsi più
lontane dal medesimo - cioé non raggiunte dal meticciato, culturale e/o
biologico, esse sono progressivamente più selvagge. Questo è un fatto della
massima importanza, sul quale si ritornerà più avanti (Cap. 8 di questa
stessa I parte).
I più barbari fra i selvaggi si accumulavano proprio nelle terre freddissime
del bordo dell'Antartide. Questo scredita immediatamente cert bolso
'razzismo climatico' in voga soprattutto (anche se non esclusivamente) in
ambienti americanofoni: a determinare il grado di civiltà non è, se non in
infima parte, l'ambiente, ma la qualità razziale della popolazione.
L'etnologo e antropologo Heinrich Driesmans (76) faceva notare lo stato di
abbandono e di desertificazione della Mesopotamia agli inizi del secolo XX,
quando la popolazione era "turco-araba", mentre era stata un giardino sotto
l'egida dei sumeri, che razzialmente erano stati tutt'altra cosa. - Non è
accidentale che la nozione del 'razzismo climatico' è stata fatta propria
proprio dai quelle genti terzomondiali che adesso avanzano 'pretese': la
barbarie dei loro antenati sarebbe stata dovuta soltanto al fatto che le
condizioni ambientali 'facili' nelle quali essi vissero non avrebbero
provveduto lo 'stimolo' necessario perché essi sviluppassero una complessa
tecnologia, a differenza di quanto poté avvenire nei climi 'freddi'.
Quanto accennato in questa sezione si ricollega strettamente alla casistica
dei 'continenti perduti', che sarà presentata in qualche dettaglio nel Cap.
8 di questa medesima I parte.
(1) Il gesuita Wilhelm Schmidt, direttore dell'Istituto Etnologico di
Vienna, è stato autore del più monumentale compendio di storia delle
religioni 'primitive' (Der Ursprung der Gottesidee, 12 voll. pubblicati
successivamente dalla Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung di Münster negli
anni Venti e Trenta del secolo XX). Quest'opera eccellente e veramente
enciclopedica fu fonte di informazione principale, sull'argomento delle
religioni dei selvaggi, anche di Mircea Eliade. Per quel che riguarda questo
scritto, di riferimento pertinente sono i voll. I - VI.
(2) Ester Panetta, I pigmei, Guanda, Roma, 1959.
(3) John Baker, Race, cit.
(4) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit, vol. IV.
(5) Marion Walsham-Howe, The mountain bushmen of Basutoland, van Schaik,
Pretoria, 1962.
(6) Willem H. I. Bleek, On resemblances in bushman and australian mythology,
rivista "The Cape monthly magazine" (Kaapstad), vol. VIII, gennaio-giugno
1874.
(7) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(8) Generalmente si vede scritto 'boomerang', in grafia americanese.
(9) Cfr. Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi,
Mediterranee, Roma, 1974 (originale 1967).
(10) Cfr. Mircea Eliade, Réligions australiennes, Payot, Paris, 1972.
(11) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. I.
(12) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. VI.
(13) Carleton Coon, Razas, cit.
(14) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. VI.
(15) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(16) Ester Panetta, Pigmei, cit.
(17) Sui pigmei africani, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. IV;
Ester Panetta, Pigmei, cit.
(18) Sui pigmei andamanesi, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit, vol. III.
Una mostra di oggetti andamanesi è stata tenuta a Dresda, 1990 - 1991, nella
cui guida (Lydia Icke-Schwalbe und Michael Günther, Andamanen und Nikobaren,
ein Kulturbid, LIT Verlag, Dresden, 1990) è data un'ottima messa a punto
storica su quelle isole e vi si troverà un'esauriente bibliografia.
(19) Sui semang, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III; Paul
Schebesta, Unter den Urwaldzwergen von Malaya, Brockhaus, Leipzig, 1927 -
non si saprà mai raccomandare abbastanza questo libro, che unisce uno stile
accattivante, e che si legge come un romanzo d'avventure, con un perfetto
rigore scientifico.
(20) Sui negrito, cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(21) Ne parlano, ma senza entrare in dettagli, Wilhelm Schmidt, Ursprung,
cit., vol. III e anche John Baker, Race, cit.
(22) Carleton Coon, Razas, cit.
(23) Alfred Vogel, Papuasi e pigmei, Baldini e Castoldi, Milano, 1954.
(24) Jacques et Paule Villeminot, La Nouvelle Gyuinée, Gérard/Marabout,
Verviers, 1966.
(25) Paul Rivet, Origines, cit.
(26) Alfredo Jahn, Los aborígenes del occidente de Venezuela, Monte Avila,
Caracas (Venezuela), 1973 (originale 1927).
(27) Questa notizia, riportata dal quotidiano "La Esfera" (Caracas,
Venezuela) del 13 luglio 1943, è menzionata anche da Cesáreo de Armellada,
Como son los indios pemones de la Gran Sabana, Elite, Caracas (Venezuela),
1946.
(28) Un eccellente compendio di tutto quel che si sa su di questa strana
popolazione è quello di Gisela Völger, Die Tasmanier, Steiner, Wiesbaden,
1972. Molto meno utilizzabili sono le pubblicazioni australiane
sull'argomento (per esempio, N. J. B. Plomley, The tasmanian aborigines,
edizione dell'autore, Launceston [Tasmania], 1977).
(29) Carleton Coon, Storia, cit.
(30) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. I; un discreto libretto
riassuntivo è quello di Vittorio di Cesare, Gli aborigeni australiani,
Xenia, Milano, 1996.
(31) Carleton Coon, Razas, cit.
(32) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit, vol. II; Mireille Guyot, Les
mythes chez les selknam et les yaman de la Terre du Feu, Institut
d'Ethnologie, Paris, 1968; Martin Gusinde, Urmenschen in Feuerland, Zsolnay,
Berlin, 1946; Wilhelm Koppers, Unter Feuerland-Indianer, Strecker und
Schröder, Stuttgart, 1924; Armando Braun Meléndez, Pequeña historia
magallánica, cit. e Pequeña historia fueguina, Francisco de Aguirre, Buenos
Aires y Santiago, 1971 (originale 1939).
(33) Carleton Coon, Razas, cit.
(34) Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. II.
(35) Un sunto di tutto quello che c'era da sapere fino a circa il 1930 -
cioé quasi tutto - su di queste genti è quello di Isaac Schapera, The
khoisan peoples of southern Africa, Routledge and Kegan Paul, London
(Inghilterra), 1930. Cfr. anche Martin Gusinde, Von gelben und schwarzen
Buschmännern, Akademische Druck, Graz, 1966. Qualche notizia addizionale che
si riferisce agli ultimissimi boscimani ancora vivi e riconoscibili, i !Kung
del Kalahari, è data da George Silberbauer, Hunter and habitat in the
central Kalahari desert, Cambridge University Press, Cambridge
(Inghilterra), 1981. Un'ottima selezione di pitture rupestri boscimanesche è
quella di Townley Johnson, Major rock paintings of southern Africa, David
Philip, Kaapstad, 1991.
(36) Carleton Coon, Razas, cit.; John Baker, Race, cit.
(37) Carleton Coon, Razas, cit.
(38) Fatto appreso dallo scrivente durante la sua presenza in Sud Africa,
fine degli anni Ottanta.
(39) Cfr. Wilhelm Schmidt, Ursprung, cit., vol. III.
(40) Carleton Coon, Storia, cit.
(41) Della documentazione in riguardo è menzionata da Robert Gayre, The
origins of the zimbabwean civilization, Galaxie, Salisbury (Rhodesia), 1972.
(42) Notizie apprese dallo scrivente durante la sua presenza in Sud Africa,
fine degli anni Ottanta.
(43) John Baker, Race, cit., dedica diverso spazio allo strandlooper.
Secondo l'autore sudafricano George Laing (The relationship between Boskop,
Bushman and Negro elements in the formation of the native races of South
Africa, South African journal of science, vol. XXIII, 1926), lo strandlooper
sarebbe il risultato del meticciato fra un 'uomo scimmia' a lui preesistente
(l''uomo di Boskop') ed elementi boscimaneschi.
(44) In riguardo, soprattutto ma non esclusivamente per quel che riguarda
l'Africa subsahariana, di utile lettura è John Baker, Race, cit.
(45) Julius Evola dedicò un paio di pagine alle civiltà americane nella sua
Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1969 (originale 1932).
(46) Sull'isola di Pascua, cfr., per esempio, Albert Métraux, La
meravigliosa isola di Pasqua, Mondadori, Milano, 1971; Andrea Drusini, Rapa
Nui l'ultima terra, Jaca Book, Milano, 1994.
(47) Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit.
(48) Cfr. Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit.; John Baker,
Race, cit.; Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(49) John Baker, Race, cit.; Rémy et Bernadette Chauvin, Monde, cit.
(50) Cfr, Carleton Coon, Storia, cit.
(51) Cfr. Myra Shackley, Neanderthal man, Duckworth, London (Inghilterra).
1980.
(52) Roberto Fondi sul settimanale "Lo Stato" (Milano) del 27 gennaio 1998.
(53) Per una visione d'insieme su questo argomento, validi sono: Bernard
Heuvelmans, Sur la piste des bêtes ignorées, Plon, Paris, 1955; Christian
Filagrossi, Creature impossibili, Armenia, Milano, 2000.
(54) Sullo yeti cfr. anche un divertente saggio di Attilio Mordini, che
vorrebbe 'inquadrarlo' in uno schema biblico (Il mito dello yeti, Il Falco,
Milano, 1977).
(55) Cfr. Eric Norman, The abominable snowmwn, Award, New York (America),
1969; Warren Smith, Strange abominable snowmen, Popular library, New York
(America), 1970; Don Hunter and René Dahinten, Sasquatch, The new american
library, Toronto (Canada), 1975, dove sono riprodotte anche delle
interessanti immagini, mai dimostrate false.
(56) Cfr. Peter Kolosimo (pseudonimo di Pietro Colosimo), Fiori di Luna,
Sugar, Milano, 1979.
(57) Cfr. il quotidiano "Il Giornale" (Milano) dell'11 ottobre 2003.
(58) Alexander von Humboldt, Viaje a las regiones equinocciales del Nuevo
Continente (5 voll.), edizione spagnola del Ministerio de Educación, Caracas
(Venezuela), 1956 (originale in francese 1816 - 1831). Questa fu poi appresa
dallo scrivente, indipendentemente ma nella stessa zona, in occasione di una
sua permanenza da quelle parti verso la fine degli anni Settanta.
(59) Lo scrivente ebbe modo di visitare la zona di Perijá verso il 1980.
Questa nozione è comunque riportata, sia pure brevemente, dal missionario
francescano Félix de Vegamián, Los Ángeles de El Tucuco, 1945 - 1970,
edizione dei Padri Cappuccini, Maracaibo (Venezuela), 1972.
(60) Hans F. K. Günther, Rassenkunde Europas, Lehmann, München, 1926
(edizione italiana Tipologia razziale dell'Europa, Ghenos, Ferrara, 2003)
suggerisce che fra le classi criminali europee affiorino occasionalmente
tratti neandertaloidi. Questo, però, è più che altro ipotetico.
(61) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(62) In riguardo, si consulti John Baker, Race, cit.
(63) Questa notizia è stata diffusa dalla stampa quotidiana di giugno e di
luglio 2003.
(64) Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit.; ma cfr. anche
Christian Filagrossi, Creature, cit.
(65) In riguardo, di utile consulta può essere l'opuscolo di
SilvanoLorenzoni, Religiosità animale, Primordia, Milano, 2003.
(66) Otto Weininger, Geschlecht und Charakter, Baumüller, Wien und Leipzig,
1903.
(67) Cfr. anche Julius Evola, Metafisica del sesso, Mediterranee, Roma,
1969.
(68) Queste idee di Otto Weininger sono state messe a profitto anche nel
campo fantascientifico, da Hanns Heinz Ewers, Der Tod des Barons Jesus Maria
von Friedel, nella collezione Die Besessenen, Georg Müller, München, 1919.
(69) Rémy et Bernadette Chauvin, Monde animal, cit.; Rémy Chauvin, La
biologie de l'esprit, Éditions du Rocher, Monaco, 1990; Rémy Chauvin, Les
sociétés animales, Presses Universitaires de France, Paris, 1982.
(70) Eugène Marais, Burgers van die berge, riproposto in Leon Rousseau (a
cura di), Die beste van Eugène Marais, Rubicon Pers, Kaapstad, 1986.
(71) George Stow, The native races of South Africa, Swan, Sonnenschein &
Co., London (Inghilterra), 1905.
(72) Cfr. un interessante arrticolo sul quotidiano "Die Welt" (Frankfurt am
Main) del 23 agosto 2002.
(73) Cfr. l'opera complessiva di Rémy Chauvin e, in particolare, i libri
citati a nota (69).
(74) Cfr. l'opera complessiva di Rémy Chauvin e, in particolare, Il mondo
delle formiche, Feltrinelli, Milano, 1976 (originale 1969).
(75) La notizia è riportata da Giovanni Monastra, Le origini della vita, Il
Cerchio, Rimini, 2000.
(76) Heinrich Driesmans, Der Mensch der Urzeit, Strecker und Schröder,
Stuttgart, 1923.
CAP. 3 CENNI STORICI
3.0 Introduzione
In questo capitolo si darà una panoramica dell'andamento storico dell'idea
del selvaggio come decaduto e non come 'primitivo'. Anche se il primo a
parlare di questa possibilità in modo esplicito fu Joseph de Maistre, c'è da
credere che si trattasse di una nozione discretamente diffusa fino a un paio
di secoli fa - non a caso lo stesso Platone vedeva nelle scimmie degli umani
decaduti in ragione dell'essere venuta meno in loro la 'scintilla sacra';
mentre fra i primi e più seri etologi (1) insorse in modo del tutto naturale
la domanda se lo scimpanzé non fosse forse un umano decaduto. Quindi, l'idea
della decadenza dell'umanità fino alla bestialità, attraverso il tramite del
selvaggio, non ha alcunché di peregrino o di strano e fu sostenuta anche da
biologi affermati fino agli inizi del secolo XX. Negli ultimio cinquant'anni
è invece prevalso, in modo definitivo, il dogma evoluzionista, secondo il
quale l'umano non poteva provenire se non 'evoluzionisticamente' da
antropoidi pitecoidi non particolarmente antichi. Nel momento della stesura
di queste righe, il dogma afferma che l'Homo sapiens ha un'origine africana,
e le scoperte paleontologiche che mettono allo scoperto reperti umani sempre
più antichi e nelle più disparate parti del mondo, vengono cavillosamente
incastrati in quel dogma. Sulla fisima evoluzionistica si riverrà in
dettaglio al Cap. 4 di questa I parte.
Sia qui ricordato che l'idea involuzionistica - indipendentemente o magari a
dispetto delle mode culturali imperanti - fu fatta propria da alcuni validi
letterati. Uno, in particolare, fu il nostro Emilio Salgari, nel quale è il
caso di vedere un genuino anti-Rousseau. (Ci si ricorderà come Jean-Jacques
Rousseau fu l'inventore della barzelletta del 'buon selvaggio', che tanta
fortuna ebbe dopo in un mondo ideologicamente sbilanciato.) In Salgari il
selvaggio è spesso presentato come un esser degradato e maledetto, che non
rispecchia alcunché di positivo ma che sembra fare da condensatore per tutte
quelle qualità negative che sono appannaggio delle classi criminali nelle
società civili (2). E uno scrittore iberoamericano parecchio discutibile, ma
che occasionalmente sfornò qualche racconto fantastico interessante, Jorge
Luis Borges, nel suo El informe de Brodie (3) ci descrive un raggruppamento
umano completamente degenerato, arrivato sul bordo dell'animalità, sul cui
pantheon troneggiava un non meglio identificato 'dio' al quale ci si
riferiva chiamandolo 'Sterco' (qui può darsi che il Borges avesse preso lo
spunto da qualche conoscenza sui tasmaniani o gli abitanti delle Nicobare,
fra i quali gli appellativi di 'Sterco' e 'Vomito' erano nomi propri
correnti).
3.1 Il selvaggio come decaduto: da Joseph de Maistre a Julis Evola
Joseph de Maistre (4) parla del selvaggio come di un "homme détaché du grand
arbre de la civilisation par une prévarication [uomo staccato dal grande
albero della civiltà da una prevaricazione]". Poi, usando un linguaggio
consono con la sua formale adesione all'immaginario monoteista cattolico,
egli procede a vedere in questa 'prevaricazione' una specie di 'peccato
originale di secondo grado' dovuto, caso per caso, a governanti che, avendo
alterato in sé stessi il principio etico, hanno trasmesso un'anatema ai loro
sudditi condannandoli a divenire selvaggi. Né il de Maistre manca di fare il
confronto fra il selvaggio e quel tipo umano che, all'interno delle società
civili, è il criminale. - E, più avanti, egli afferma che anche le lingue
dei selvaggi non devono essere viste come degli embrioni linguistici, ma
piuttosto come dei rottami ("débris de langues antiques ruinées ... et
dégradées comme les hommes qui les parlent... [rottami di lingue antiche,
rovinate e degradate come gli uomini che le parlano ...]). Ci informa anche
che i gesuiti francesi avrebbero messo insieme un'immensa documentazione
sulle lingue dei selvaggi (presumibilmente, in massima parte proveniente
dall'America del Nord e dai Mari del Sud), andata perduta durante la
Rivoluzione (5).
Va ricordato che Joseph de Maistre, pure massone, era di formazione
gesuitica e che quindi, probabilmente, sapesse perfettamente di cosa stesse
parlando quando si riferiva ai gesuiti. e non a caso, in ambienti gesuitici
(ai quali apparteneva anche lo spesso citato Wilhelm Schmidt), la
possibilità dell'opzione involutiva per il selvaggio rimase palesemente
aperta fino a tempi molto recenti. Vittorio Marcozzi, gesuita, ne parla
nella sua opera spesso citata (6), per concludere, cautamente, che l'ipotesi
evolutiva sembrerebbe essere la più probabile. Ester Panetta (7) cita un non
meglio identificato 'Padre Lafiteau' che sarebbe stato quello che, in modo
'definitivo', avrebbe sancito la parola d'ordine secondo la quale i selvaggi
(nella maggior parte dei casi) sarebbero non dei degenerati ma dei
primitivi: questo sembrerebbe indicare che la prima possibilità era tenuta
come valida fino a tempi molto recenti, almeno in certi casi, negli ambienti
gesuitici.
Ma ancora nel Settecento (pur senza alcun riferimento a 'primitivi'), il
grande biologo Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, aveva affermato che
la 'trasformazione' di una specie in un'altra può avvenire solo attraverso
degenerazione di specie superiori in inferiori; e in quei medesimi tempi non
mancarono gli scienziati che vedevano nel negro una forma involutiva
risultante dal meticciato fra l'uomo vero (quello europide) e la scimmia
(8). - Ai primi dell'Ottocento il celeberrimo esploratore Alexander von
Humboldt (9) esprimeva l'opinione che gli indigeni delle zone rivierache
dell'Orinoco, quali egli li aveva incontrati, fossero una "razza
degenerata"; e a Humboldt si rifà esplicitamente James Chrchward (10),
teorico del continente perduto di Mu, quando afferma che il selvaggio è un
civile decaduto (e quindi, come si è già detto, non un preistorico ma un
post-storico), come conseguenza di una qualche catastrofe naturale ("solo
chi non conosce i selvaggi può illudersi che la civiltà sia nata dalla
barbarie ... l'uomo allo 'stato di natura' è un condannato a morte"). - Uno
dei più validi antropologi dell'anteguerra, Georges Montandon (11), si
dichiarava sicuro che i pigmei fossero un ramo aberrante staccatosi dal
tronco umano normale. - E anche Oswald Spengler (12) asseriva che i
cosiddetti 'primitivi' non fossero altro resti di materiale vivente, avanzi
di forme un tempo animate, scorie. Egli però non sviluppò l'argomento.
Julius Evola aveva fatta sua l'idea involuzionistica, che egli sviluppò però
con un certo dettaglio solo per il lato riguardante la psicopatologia e la
qualità involuta del selvaggio dal punto di vista esistenziale e religioso -
su di questo ci si dilungherà nel Cap. 4 della II parte (13). L'argomento,
in temini più generali, fu toccato negli anni Venti, non da Evola
direttamente ma da un suo collaboratore che, firmandosi con lo pseudonimo di
Arvo, che scrisse in riguardo nell'opera collettiva Introduzione alla magia
quale scienza dell'io (14). Arvo affronta anch'egli l'argomento dal punto di
vista metafisico e si dilunga a mettere in relazione la casistica
dell'involuzione con la dottrina dell'uomo-entelechia' - l'uomo 'fuori dal
tempo' - sviluppata da Edgar Dacqué e sulla quale ci si addentrerà nel Cap.
7 di questa I parte. Sia qui menzionata una calzante osservazione dell'Arvo,
secondo la quale, a livello puramente empirico, ogni fatto addotto a
sostegno dell'evoluzionismo può essere contemporaneamente addotto a favore
di una tesi involuzionistica: quando, ipoteticamente, "si fosse anche giunti
a constatare una continuità di forme e di anelli permettenti di passare da
una specie a un'altra, sino all'uomo, si sarebbe semplicemente stabilita una
linea che nessuno ci dice in che senso sia stata percorsa". - Quanto al
fatto che "le tracce fossili dell'uomo sembrano essere più recenti", esso
può, secondo Arvo, ammettere ogni tipo di spiegazioni. Ma non è vero che le
tracce fossili umane siano più recenti di quelle di ogni altro tipo di
animale o vegetale - ci si riferisca al Cap. 4 di questa I parte.
3.2 La decadenza come problematica della storia comparata delle religioni
Si vuole concludere questo capitolo dando un'idea dell'aspetto che la
problematica evoluzione-involuzione ha acquistato nel modo in cui si è
messa a fuoco la storia delle religioni nell'universo accademico (15). Il
punto di vista 'evolutivo' si immaginava i selvaggi come degli esseri umani
molto vicini all''inizio assoluto', quando l'uomo sarebbe emerso - more
darwiniano - dall'animalità; punto di vista che fu, e ancora è, sostenuto
dall'establishment 'scientifico' ufficiale, quello che si è impossessato
delle cattedre universitarie e dei mezzi di comunicazione, al punto di avere
scavalcato quai interamente, in quegli ambienti, il punto di vista opposto.
La Weltanschauung 'involuzionista'/decadentista si rifaceva invece all''idea
del 'buon selvaggio' di Jean-Jacques Rousseau e, nel contempo, anche alla
teologia monoteista rappresentata filosoficamente anche da Wilhelm Schmidt:
nel selvaggio si vedeva l'essere più o meno 'perfetto', dal punto di vista
morale o anche da quello religioso, mentre dalle religioni dei selvaggi
sarebbero discese, per involuzione, le religioni storiche pre- o
extra-monoteiste.
Queste due ideologie, in apparenza diametralmente opposte, hanno invece due
punti essenziali in comune: (a) sono ossessionate dalla nozione
dell'origine' e dell''inizio' dell'idea religiosa; (b) questo origine/inizio
deve essere stato 'semplice'. Per gli evoluzionisti, questa semplicità
doveva riflettere un comportamento e un modo di 'vedere' il mondo molto
vicino a quello degli animali; per i decadentisti essa doveva rappresentare
una specie di pienezza e di perfezione metafisica. Quindi, ambedue queste
ideologie soggiacciono allo Zeitgeist moderno, secondo il quale tutto deve
avere avuto, per forza, un 'inizio' - e avrà, prsumibilmente, un
'compimento'.
È chiaro che al filone decadentista appartiene anche Wilhelm Schmidt (16); e
su Wilhelm Schmidt vale la pena di spendere due parole. Non c'è dubbio che
il suo spesso citato Ursprung der Gottesidee sia il compendio migliore che
mai sia esistito e che ancora esista sull'argomento delle religioni dei
selvaggi (17). Lo Schmidt approda a un concetto del tutto generale, valido
per tutti i selvaggi soprattutto se di livello assolutamente infimo, che è
quello che lui chiama Urmonotheismus [monoteismo primordiale], che poi
Mircea Eliade ridimensionò nel suo deus otiosus, che sarà messo a fuoco
sotto una luce del tutto diversa nel Cap. 2 della II parte. Avendo
individuato, attraverso uno studio dettagliato, vasto ed esattissimo, questo
fenomeno culturale, lo Schmidt procede a 'incastrarlo' dentro a uno schema
concettuale monoteista, biblio-talmudico, immaginandosi i selvaggi come se
non identici almeno molto vicini a quello che poteva essere l''uomo
primordaiale' - 'Adamo', tanto per intenderci -, appena spedito fuori dal
cosiddetto 'paradiso terrestre'. Il (presunto) monoteismo delle popolazioni
selvagge verrebbe a essere un ancora vivido ricordo dei tempi (edenici)
quando 'dio' poteva essere visto da vicino.
Questo lo descriviamo qui per obbligo di completezza e non solo come
curiosità, per fare vedere a quali malate fantasmagorie possa portare una
forma mentis monoteista anche in persone eccezionalmente intelligenti. Le
conseguenze ultime vengono raggiunte invece da pazzi scatenati: il
demonologo Egon von Petersdorff (18), che cita occasionalmente Wilhelm
Schmidt, afferma che dei detti dei filosofi greci o degli autori classici in
qualche modo concordano con quelli dei cosiddetti 'padri della chiesa',
questo è dovuto a che i primi usufruivano ancora, sia pur per vie traverse,
di ricordi che risalivano ai tempi 'edenici'. In altre parole, Platone è
debitore intellettuale ai cannibali dell'Oceano Pacifico o ai boscimani del
Kalahari. - Un ordine analogo di idee era stato espresso dal filosofo
Friedrich Wilhelm Schelling, che nelle sue due Einleitungen - an der
Philosophie der Mithologie e an der Philosophie der Erlösung - prospettava
una 'rivelazione primordiale', affievolitasi poi con il tempo, con
conseguente necessità di una 'redenzione', realizzatasi attraverso la venuta
di Cristo, per rimettere d'accordo 'dio' e l'uomo. - Lo Schmidt, nella sua
Ursprung, non cita Schelling.
(1) Wilhelm Bölsche, Tierseele und Menschenseele, Francksche
Verlagshandlung, Stuttgart, 1924.
(2) Cfr., in particolare, i romanzi I cannibali dell'Oceano Pacifico e I
prigionieri delle pampas.
(3) Jorge Luis Borges, El informe de Brodie, Emecé, Buenos Aires
(Argentina), 1970.
(4) Joseph de Maistre, Les soirées de Saint-Pétersbourg, Éditions de la
Maisnie, Paris, 1980 (originale 1809).
(5) Sempre secondo il de Maistre, di questa documentazione sarebbe esistito
un sunto (non particolarmente ben fatto) in lingua italiana (Memorie
cattoliche, 3 voll.), che già agli inizi dell'Ottocento era extrêmement rare
[estremamente raro].
(6) Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(7) Ester Panetta, Pigmei, cit.
(8) Cfr. Giuseppe Sermonti, Luna, cit.
(9) Alexander von Humboldt, Viaje, cit.
(10) James Churchward, Mu, le continent perdu, J'ai lu, Paris, 1969.
(11) Georges Montandon, La race, les races, Plon, Paris, 1933.
(12) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, Il
Borghese, Milano, 1970 (originale 1931).
(13) Julius Evola, Sintesi, cit.; L'arco e la clava, Scheiwiller, Milano,
1971; Rivolta, cit.; ecc.
(14) Julius Evola (a cura di), AA.VV., Intoduzione alla magia quale scienza
dell'io (4 voll.), I Dioscuri, Genova, 1987 (originale 1927 - 1929); vol.
III.
(15) Questo argomento è stato riassunto in modo perfetto da Mircea Eliade
nell'introduzione alla sua opera Réligions australiennes, cit., da dove, in
buona parte, sarà mutuato l'esposto che segue in questa sezione.
(16) Wilhelm Schmidt rende esplicite le sue idee teologico-filosofiche sulla
religione dei selvaggi nella sua Ursprung, cit., voll. I e VI.
(17) Chi conosca discretamente bene l'opera complessiva di Mircea Eliade (e,
in particolare, il suo Trattato di storia delle religioni, Boringhieri,
Torino, 1976 [originale 1948]), si sarà acorto che l'Ursprung di Wilhelm
Schmidt è la sua principale fonte di informazione.
(18) Egon von Petersdorff, Daemonen, Hexen, Spritisten, Credo, Wiesbaden,
1960.
CAP. 4. LA FISIMA EVOLUZIONISTICA E LA POSIZIONE DELL'UOMO NEL COSMO
4.0 Introduzione
In questo capitolo: (a) si darà un breve esposto della fisima
evoluzionistica (cioé, a ogni effetto pratico, darwinistica, perché il
darwinismo, identificato con l'evoluzionismo, è divenuto uno dei dogmi
portanti dei nostri tempi [1]) mettendone a nudo le fondamenta concettuali e
poi indicando la sua infondatezza scientifica; (b) si indicherà la
collocazione obiettiva, spaziale e temporale, dell'uomo nel Cosmo, in base
ai ritrovati obiettivi non setacciati dall'establishment 'scientifico'
contemporaneo.
4.1 Il darwinismo (2) e sua radice biblio-talmudica
All'interno di un tempo immaginato come una 'quarta dimensione'
unidirezionale dello spazio - sulla valutazione del tempo si ritornerà al
Cap. 5 di questa I parte -, il paradigma 'scientifico' evoluzionista ci
presenta ogni individuo e specie vivente come facente parte di una catena
progredente nel medesimo, costituita da presenze derivanti da quelle che le
hanno precedute per filiazione diretta. Le variazioni riscontrabili nella
storia (o presunta tale) delle specie, obiettivata dal record fossile, sono
attribuite a cambiamenti, divenuti ereditari, intervenuti a un determinato
momento e che poi hanno improntato di sé tutta la discendenza. Il darwinismo
è quella varietà di evoluzionismo che propone come meccanismo causante della
perpetuazione delle variazioni ereditarie la cosiddetta selezione naturale,
per cui quando (per qualsiasi ragione) in qualche individuo o gruppo di
individui vengono a manifestarsi delle caratteristiche che lo rendono più
'adatto' all'ambiente fisico e/o biologico in cui si viene a trovare, la sua
discendenza tenderà a essere più numerosa e, alla lunga, soppianterà
distruttivamente quella di coloro che tali caratteristiche non hanno, dando
così origine a una nuova forma biologica - a una nuova 'specie'. Adesso come
adesso, darwinismo è divenuto a ogni effetto pratico sinonimo di
evoluzionismo, in quanto questa confusione semantica è favorita
dall'establishment 'scientifico' per il quale il darwinismo è divenuto
l'unico paradigma evolutivo accettabile. Questo, in quanto esso presenta
lameno tre caratteristiche assolutamente congruenti con lo Zeitgeist:
(a) Esso soddisfa la Weltanschauung contemporanea che vuole che anche la
natura funzioni come una banca - con criteri da usuraio orientati al
profitto. Darwin non fu altro che un usuraio con pretese di 'biologo'.
(b) Essa si accorda con il paradigma politico contemporaneo, che vuole che
ogni cosa superiore abbia la sua scaturigine in qualcosa di inferiore -
attraverso 'miglioramento', educazione o altra cosa - ma mai viceversa.
(c) Essa si accomoda alla visione segmentaria del tempo, per cui la vita in
generale e quella umana in particolare, deve avere avuto un inizio di
qualche genere ('creazione') e deve poi avere progredito un poco alla volta,
tendendo a una qualche 'pienezza' (salvo poi magari venirsi a trovare di
fronte a qualche catastrofica troncatura).
Come si vede, il darwinismo è fatto su misura per andare d'accordo con il
paradigma biblio-talmudico che regge i nostri tempi (3); e questo spiega il
suo successo. Quale potesse essere il deus ex machina che diede origine a
quei caratteri che avrebbero dato a certuni il vantaggio su altri agli scopi
della cosiddetta selezione naturale, fu un mistero assoluto dalla
pubbblicazione dell'opera di Darwin (verso la metà dell'Ottocento) fino ai
primi del Novecento, quando si volle vederlo nelle cosiddette mutazioni.
Anche la teoria mutazionistica dimostrò ben presto delle insormontabili
limitazioni; e difatti fu (definitivamente) accantonata, dal punto di vista
scientifico, già nel 1980 (4) - ma i darwinisti, cioé tutti i tromboni
dell'establishment 'scientifico' ufficiale, non se ne diedero mai per intesi
né è probabile che abbiano intenzione di farlo; forse perché, come pontificò
uno di loro (5), qualsiasi alternativa è inimmaginabile.
Che poi evoluzionismo (non necessariamente darwinismo) e biblio-talmudismo
siano fatti l'uno per l'altro, sembra essere confermato da alcuni studiosi
estremamente seri dal punto di vista scientifico ma che, quando si viene a
interpretazioni, si lasciano trascinare anch'essi dal loro monoteismo. Rémy
Chauvin (6), in un suo libro che non si potrà mai raccomandare abbastanza,
pur dopo avere dimostrato che lo sviluppo ('evoluzione') delle forme
biologiche attraverso gli eoni geologici spesso e volentieri va contro ogni
criterio di 'selezione naturale', non può se non arrivare alla conclusione
che, come monoteista, egli deve essere evoluzionista perché è l'unica
possibilità scientificamente accettabile attraverso la quale, dopo
l''origine' della vita (cioé: la 'creazione'), si potrebbe arrivare alla
'corona del creato', l'Homo sapiens, raggiunto il quale l'evoluzione si
sarebbe fermata perché si sarebbe arrivati alla 'pienezza dei tempi'. Idee
del genere erano state avanzate da un pregevole biologo italiano, Piero
Leonardi (7), già mezzo secolo addietro; e un'interpretazione 'evolutiva'
della segmentarietà del tempo nel mondo biologico si sta facendo sempre più
strada in ambienti monoteisti. Quanto all'avversione per l'idea
evoluzionista manifestata in ceri ambienti bibliolatri fondamentalisti,
sopratturro di lingua americana (perchè essa attenterebbe all'idea della
crezione ex nihilo dell'uomo da parte di un ipotetico 'dio' semitico), è una
fenomenologia tipicamente monoteista: solo i monoteisti sono stati,
attraverso la storia, l'uno alla gola dell'altro per ragioni 'religiose'
("il mio dio è migliore del tuo").
Quanto al cosiddetto 'darwinismo sociale, per cui la 'corona del creato'
sarebbe il manipolatore finanziario (che è il più adatto a fare carriera in
una società ebraizzata come quella in cui ci tocca adesso vivere), è una
conseguenza necessaria della tesi biologica darvinista, che sfocia
obbligatoriamente nel dovere vedere nel parassita la specie trionfante del
mondo futuro. Questo, ovviamente, è assurdo - ma tutto ciò che scaturisce
dal biblio-talmudismo è assurdo.
4.2 Gli argomenti statistici
Si è già detto come il darwinismo si trovi a corto di 'meccanismi' per
giustificare le variazioni genetiche alle quali poi si possa afferrare la
'selezione naturale'; ma esso da fiducia ancora alle mutazioni perché "ogni
altra soluzione è inimmaginabile". Gli argomenti più validi contro il
processo di mutazione+selezione (neodarwinismo), e che lo rendono del tutto
assurdo, sono di tipo statistico e provengono dal calcolo fatto, usando
tecniche matematiche standard da tutti accettate, della probabilità che
certi processi molecolari (processi portanti della biochimica e quindi della
vita, secondo ogni accettata teoria standard), abbiano potuto avere luogo
nei tempi 'disponibili'. Questo era già stato notato da uno dei principali
tromboni del neodarwinismo, il biblio-marxista Jacques Monod, il quale era
però stato almeno sufficientemente onesto da portare fino in fondo le sue
argomentazioni: la probabilità che la vita si potesse sviluppare era
talmente bassa da essere in pratica uguale a zero, e quindi nella vita si
deve vedere un genuino 'miracolo statistico' (8). Un'indicazione degli
ordini di grandezza in questione è data nella bibliografia (9); e uno studio
dettagliatissimo in riguardo è stato fatto dal già citato Ferdinand Schmidt
(10). (Adesso gli 'esperti' hanno ecogitato un nuovo approccio al problema:
essi mettono indietro l''età dell'universo' ogni volta di più in modo che il
miracolo di Jacques Monod non sia più tanto miracoloso [11].)
Dopo avere dimostrato l'impossibilità dell'evoluzione stereotipa, secondo le
normalmente accettate leggi molecolari e il calcolo delle probabilità,
Ferdinand Schmidt propone un altro meccanismo per darne ragione. Egli lancia
la teoria dell'evoluzione cibernetica, secondo la quale gli esseri viventi
funzionano come calcolatori cibernetici, cioé calcolatori elettronici capaci
di imparare e di modificare la propria programmazione da soli in base
all'esperienza: e siccome le leggi della cibernetica sono leggi logiche e la
natura funziona logicamente (usando la logica aristotelica), questo gli
sembra la cosa più naturale e accettabile. Non a caso gli studiosi di
cibernetica negano che il 'calcolatore pensante' sia un'utopia; e sotto le
medesime condizioni ambientali un calcolatore cibernetico può trovare
molteplici soluzioni adattative diverse - donde una proliferazione
divergente delle specie. Ma anche Ferdinand Schmidt deve ammettere che il
calcolatore cibernetico non può evocare sé stesso dal nulla: quindi, per
l'inizio della vita, anche lui non può fare a meno di invocare quel
'miracolo statistico' già indicato da Jacques Monod. Inoltre, la teoria
dell'evoluzione cibernetica indica che l'evoluzione, una volta innescata,
deve procedere sempre più in fretta, fino a raggiungere un ritmo
allucinante - anche i progressi tecnici moderni sono, secondo questo
approccio, dei fenomeni evolutivi; e questo fa presagire il disastro.
Siamo dunque di nuovo davanti a un tempo segmentario: creazione ('miracolo
statistico') seguita necessariamente da apocalisse, nel miglior stile
monoteista. Ferdinand Schmidt da la mano a un altro catastrofista, Theo
Löbsack (12), secondo il quale un'evoluzione fuori controllo dell'encefalo
porterà necessariamente l'uomo all'estinzione entro pochi secoli. Nessun
evoluzionista trova un'uscita fuori dal tempo segmentario: ognuno di loro è,
in fondo e contrariamente a ogni apparenza, un monoteista riciclato.
Evoluzionismo e 'creazionismo' sono due pagliacciate che l'una vale l'altra.
4.3 Antichità vera e diffusione dell'uomo
premesso quanto sopra, non sorprende che tutti quei pretesi ritrovati
paleontologici che, evoluzionisticamente, dovevano essere gli 'anelli
mancanti' fra l'uomo e i suoi scimmieschi antenati si siano dimostrati dei
falsi (13). Provvisoramente, il nuovo dogma 'evoluzionistico-creazionista'
proposto dall'establishment, è quello dell'origine unitaria africana
dell'Homo sapiens, antico ma non troppo, dogma al quale, fino a che non
subentrino cambiamenti, si tenta di accomodare ogni nuovo ritrovato
paleontologico.
Viene invece soppressa quell'evidenza che indica che l'uomo è antichissimo,
anteriore e poi contemporaneo non solo alla scimmia ma anche al dinosauro e
all'insetto (14): tracce umane - e non solo in senso lato, ma di umanità
civile - sono rintracciabili fino nel Precambriano (anche se è difficile
immaginare quanto simile quell''umanità' potesse essere, somaticamente e
psicologicamente, all'uomo civile contemporaneo [15]).
Quando l'uomo venga immaginato come un essere di immemorabile antichità,
vengono a cadere anche quelle barriere concettuali che riguardano le
modalità di popolamento, da parte di svariate razze, delle diverse parti
della Terra quale essa, adesso, geograficamente è (gli amerindi 'devono'
essere di origine siberiana, i tasmaniani 'devono' essere di origine
australiana, perché qualsiasi alternativa è 'inimmaginabile'). A parte il
fatto che le diverse popolazioni avrebbero potuto, nel passato, usufruire di
mezzi di locomozione di cui non hanno dopo usufruito, rimane che la Terra
non ha sempre avuto la fisionomia topografica che adesso ha (da quando la
scienza ufficiale, dopo notevoli reticenze, ha fatto sua la teoria della
deriva dei continenti di Alfred Wegener, questa possibilità viene ammessa
anche a livello di establishment). E se l'uomo è sempre esistito, anche la
distribuzione dei tipi umani ebbe delle possibilità di manifestazione adesso
precluse o comunque diverse da qunto adesso possa essere il caso.
Queste possibilità sono tipificate nel più interessante dei modi dalla
popolazione aborigena di quello che - più ancora dell'Australia - è il più
isolato di tutti i continenti, l'America del Sud. Lì sia i reperti
archeologici (Brasile meridionale e zona andina) che le caratteristiche
somatiche delle popolazioni più australi dimostrano notevoli affinità con le
genti australoidi e papuasiche; mentre in tutti gli amerindi si
riscontrerebbero caratteristiche ainu (gli ainu dovevano essere in tempi
remoti un tipo umano molto diffuso, se ne parlerà con qualche dettaglio nel
Cap. 2 della III parte) (16). Già Paul Rivet (17) aveva fatto delle
osservazioni del tutto pertinenti e si era anche reso conto di interesanti
coincidenze lessicali fra la lingua dei fueghini ona e dei patagoni
tehuelche e le lingue australiane (18). Questi interessantissimi fatti egli
li attribuiva a un'immigrazione australiana, alla svolta del VI - V
millennio a.C., avvenuta via mare bordeggiando l'Antartide, e suggeriva
quindi che sotto i ghiacci della banchisa antartica potesse esserci un ricco
bottino archeologico (19).
Le ipotesi del Rivet non possono essere escluse, ma potrebbero divenire
superflue quando l'impostazione del problema venga cambiata in ragione della
possibilità di un prolungamento indefinito della presenza umana sulla Terra.
In particolare, una rivalutazione delle idee di Ameghino aprirebbe la
possibilità di un'origine almeno parzialmente sud-americana dell'umanità
australoide.
(1) Assieme all'einsteinismo e all''olocausto'.
(2) Gli esposti a livello divulgativo e non divulgativo della teoria
darwiniana sono innumerevoli - molte meno sono invece le opere critiche,
delle quali qui diamo un breve florilegio. Giuseppe Sermonti e Roberto
Fondi, Dopo Darwin, Rusconi, Milano, 1980 e Roberto Fondi, Organicismo ed
evoluzionismo, Il Corallo/Il Settimo Sigillo, Roma, 1984, sono dei classici
in argomento, almeno in lingua italiana. Giuseppe Sermonti, Il crepuscolo
dello scientismo, Rusconi, Milano, 1971, anche se è un testo di gnoseologia
generale, contiene anche delle valide critiche al darwinismo. Di ottimo
riferimento Giovanni Monastra, Origini, cit., Rutilio Sermonti, Rapporto
sull'evoluzione, Il Cinabro Catania, 1985 e Rémy Chauvin, Biologie, cit.
L'agile libretto, in lingua americana, di Francis Hitchings, The neck of the
giraffe, Pan London (Inghilterra), 1982, da una sequenza di spezzoni di
informazione sui punti principali dove il darwinismo da origine a
contraddizioni.
(3) Cfr. Silvano Lorenzoni, Origine del monoteismo e sua diffusione in
Europa, Carpe Librum, Nove, 2001.
(4) Cfr. Rutilio Sermonti, Rapporto, cit.
(5) Jacques Monod, citato da Ferdinand Schmidt, Grundlagen der kybernetische
Evolution, Goecke und Evers, Krefeld, 1985.
(6) Rémy Chauvin, Biologie, cit.; e anche Joachim Illies, Schöpfung oder
Evolution, Interform, Zürich, 1980.
(7) Piero Leonardi, L'evoluzione dei viventi, Morcelliana, Brescia, 1950.
(8) Jacques Monod, Le hasard et la nécessité, Seuil, Paris, 1970.
(9) Cfr. nota (2) qui sopra.
(10) Ferdinand Schmidt, Grundlagen, cit.
(11) Cfr. Silvano Lorenzoni, Sottomondo, sovramondo e centralità umana,
Congresso Occidentale, Trieste, 2003.
(12) Theo Löbsack, Die letzten Jahre der Menschheit, Bertelsmann, München,
1983.
(13) Un istruttivo elenco di questi falsi è dato da Rutilio Sermonti,
Rapporto, cit.
(14) Cfr. Michael Cremo e Richard Thompson, Archeologia, cit., dove, fra
l'altro, c'è un vasto esposto dei lavori di Florentino Ameghino. Giuseppe
Sermonti, Luna, cit., cita Max Westerhofer (Die Grundlagen meiner Theorie
von Eigenweg des Menschen, Winter, Heidelberg, 1948) secondo il quale l'uomo
è il più antico dei mammiferi e quello che meno si è allontanato dal suo
ipotetico prototipo.
(15) In riguardo, di utile consulta può essere Silvano Lorenzoni,
L'equilibrio antropocosmico e lo snaturamento del tempo, Primordia, Milano,
2001.
(16) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.
(17) Paul Rivet, Origines, cit.
(18) Paul Rivet, Les autraliens en Amérique, Bulletin de la Société de
linguistique de Paris, 1925.
(19) In riguardo alla 'rotta antartica', il Rivet (Origines, cit.) si
appoggia all'opera di un brillante archeologo ed etnologo portoghese,
António Mendes Corrêa (Boletim da Sociedade portuguesa de antropologia e
etnologia, Pôrto, 1925).
CAP. 5 LA VALUTAZIONE DEL TEMPO
Avendo, poco sopra, messo a fuoco il fatto della fattuale eternità
dell'uomo, vale la pena di fare il punto di quale deva essere la valutazione
giusta di questo tempo indefinito; e a questo sarà dedicato questo breve
capitolo. Già negli anni Venti, Edgar Dacqué (1) affermava che bisognerebbe
sempre avere una visione sovratemporale delle cose, senza la quale non ci
può essere una vera scienza; ma la problematica del tempo, quando la si
voglia trattare in profondità non si presenta facile e, non a caso, pochi
l'hanno affrontata: lo scrivente ha tentato di dare un esposto il più
completo possibile sull'argomento in un suo recente scritto (2), al quale il
lettore è riferito se volesse approfondire.
Una delle conclusioni alle quali lì si poté arrivare è che non esiste un
tempo 'assoluto', indipendente da chi ne ha esperienza esistenziale, in
quanto ogni osservatore - essere osservante - ha un suo tempo
psico-biologico non omologabile a quello di un altro essere osservante
(questo diverrà importante anche quando si parlerà di fatti linguistici,
cfr. il Cap. 1 della II parte). Quando si guardi verso il passato, è lecito
estrapolare linearmente il tempo storico soltanto fino a dove si possa
essere ragionevolmente sicuri dell'esistenza di umani osservanti a noi
essenzialmente analoghi per quel che riguarda la loro struttura
psico-biologica: quindi uomini sul tipo di quelli rintracciabili adesso
nell''ecumene artico' che è stato definito ai Capp. 1 e 2 di questa prima
parte. - Questa conclusione lo scrivente la aveva raggiunta esclusivamente
sulla base di considerazioni epistemologiche (specificamente, traendo le
conseguenze ultime dalla Kritik der reinen Vernunft di Immanuel Kant),
ponendo il limite oltre il quale l'estrapolazione lineare del tempo, in
direzione del passato, diventa abusiva, sui 20 - 50.000 anni. Ma una
conferma viene anche dalla scienza 'positiva': i metodi di datazione
accettati sono abbastanza esatti fino a circa 7.000 anni addietro, meno
esatti fino a 20 - 50.000 anni addietro e nessuno si spinge oltre con alcun
grado di esattezza (3): più indietro, è lecito immaginarsi un'umanità, pure
esistente, molto diversa da quella odierna. Questa coincidenza di risultati
fra un esame epistemologico e dati empirici (o ragionevolmente presunti
tali) è per lo meno interessante, anche a non volere invocare alcuna
evoliana 'occulta convergenza'.
Quando si voglia andare a ritroso oltre quei 50.000 anni (circa) - o si
vogliano fare previsioni per un futuro improbabilmente lontano - il tempo
diventa sfocato; ci si deve accontentare di un 'prima' e un 'dopo', separati
da intervalli cronologici puramente simbolici. Attribuire delle lunghezze a
quegli intervalli, espresse sotto forma di 'ordini di grandezza' omologati
al tempo esistenziale dell'uomo civile contemporaneo, può essere un
esercizio, anche utile, che serve a 'darsi un'idea' al tipo di periodi
cronologici di cui si sta discutendo, ma che può diventare fuorviante quando
ci si dimentichi che si sta lavorando soltanto con delle 'protesi mentali'
di convenienza.
Perciò non si può - e non si deve - dubitare della realtà delle cosiddette
ère geologiche, quali esse sono evidenziate dal record fossile, ma esse
devono essere viste come dei periodi, separati da cesure catastrofiche sul
piano biologico, all'interno di ognuna delle quali la biosfera ebbe una
qualità diversa da quanto venne prima e da quanto seguì dopo. - Ci fu un
Terziario (incominciato '65 milioni di anni' fa), non ancora concluso, che
fu l'epoca del predominio della forma biologica mammifero (il cosiddetto
Quaternario è un'era geologica artificiale, che viene fatta incominciare a
decorrere da quando, in base a evidenza setacciata per non urtare con il
dogma darwinista, esisterebbe l'Homo sapiens, e la cui 'data di inizio'
viene quindi continuamente spostata). Ci fu un Secondario (incominciato '250
milioni di anni' fa) che fu l'epoca del predominio dei rettili; un Primario
(incominciato '600 miloni di anni' fa) che incominciò con il predominio dei
trilobiti (Cambriano) e finì con quello degli insetti (Carbonifero/Permiano)
e un ancora più misterioso Precambriano. In tutti questi periodi ci fu una
persona umana - così come il tempo non ha avuto inizio e non avrà fine,
anche l'uomo non ha vuto un inizio e non avrà una fine - essere portatore di
cultura nel mondo e responsabile dell'equilibrio cosmico (4).
È appropriato concludere con una nota di carattere, più che storico,
metafisico. L'uomo, all'interno del mondo biologico, è soggetto e nel
contempo attore nelle fenomenologie della decadenza e delle cesure epocali,
ossia nei cicli storico-cosmologici. e il ciclo è il modo in cui il
non-tempo del fondo ontologico dell'universo (l''incondizionato') si
riflette nel mondo fenomenico (il condizionato), che invece è soggetto al
tempo (5). Il fenomeno della decadenza, alla fine di ogni ciclo, è una
conseguenza diretta del fatto che il mondo biologico è immerso nel tempo.
(1) Edgar Dacqué, Natur und Seele, Oldenbourg, Münche, 1928.
(2) Silvano Lorenzoni, Chronos, cit.
(3) Cfr. Alberto Broglio e Janusz Kozlowski, Il Paleolitico, Jaca Book,
Milano, 1987 (il neandertaliano, in Europa, scomparve circa 50.000 anni
addietro). Una realtà di questo genere era stata intuita anche da un
interessante storico tedesco (sul quale si ritornerà nella III parte),
Heinrich Wolf (Angewandte Rassenkunde, Weicher, Berlin/Leipzig, 1938).
(4) Cfr., per esempio, Silvano Lorenzoni, Equilibrio, cit.
(5) Questo, visto già da Platone, fu ripreso da Arthur Schopenhauer nella
sua Die Welt als Wille und Vorstellung e poi dallo scrivente nel suo
Chronos, cit.